Sono poche, ma in un Israele scosso dagli attacchi terroristici del 7 ottobre scorso esistono anche le voci di quei cittadini che chiedono un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Tra costoro anche i familiari degli ostaggi nelle mani delle milizie palestinesi.
Sabato scorso, 30 ottobre, per la prima volta dal 7 ottobre, giorno dell’attacco terroristico di Hamas e dell’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, alcune decine di ebrei israeliani, sfidando il clima generale che tende a tacitare il dissenso, sono scesi in piazza, con cartelli scritti in inglese ed ebraico, per chiedere l’immediato cessate il fuoco nella Striscia. I manifestanti si sono dati appuntamento davanti al quartier generale dell’esercito a Kaplan Street, in pieno centro di Tel Aviv, dove, prima del 7 ottobre, centinaia di migliaia di persone si affollavano ogni sabato sera, da inizio gennaio 2023, per protestare contro la politica del governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu.
Certo, stavolta, si è trattato un numero di manifestanti ben più modesto. Però ogni gesto di sfida contro la guerra da parte della società civile israeliana (parliamo della sua maggioranza ebraica) rappresenta uno strappo foriero di pericoli, in un Paese che, in un modo o nell’altro, deve in questo momento mantenere il massimo della compattezza interna. Il governo ha proibito qualsiasi manifestazione politica e nelle scorse settimane la polizia ha usato la mano pesante contro gli arabi israeliani, arrestandone quasi 200, con l’accusa di incitare alla violenza e al terrorismo su Internet. Il capo della polizia, Kobi Shabtai, ha persino minacciato di deportare a Gaza chiunque di loro esprimesse solidarietà con la popolazione della Striscia. La minoranza arabo-israeliana rappresenta più di un quinto della popolazione ed è vista con diffidenza e come un potenziale nemico dall’attuale governo.
Nessuno è intervenuto invece per bloccare la piccola manifestazione di sabato scorso. Uomini e donne di tutte le età hanno scandito slogan per un immediato cessate il fuoco per circa un’ora e mezzo. Alcuni attivisti hanno spiegato alla testata elettronica israeliana +972Magazine che sarebbero voluti scendere in piazza prima, ma temevano per la loro stessa vita. Sono infatti oggetto di continue minacce di morte e i loro nomi e indirizzi compaiono sui gruppi social della destra filogovernativa. Vogliono però continuare nella campagna contro la guerra e aggregare nuove forze.
A distanza di poche decine di metri dai pacifisti, protestavano anche i familiari degli ostaggi catturati da Hamas. Le forze dell’ordine non potevano certo prendere a manganellate o arrestare quest’ultimi e ciò, secondo alcuni attivisti, ha salvato chi invocava un cessate il fuoco immediato. I parenti dei rapiti rappresentano una spina nel fianco del governo, con cui sono in completo disaccordo e lo scorso sabato sera, avevano appena terminato un deludente incontro con il premier Netanyahu. La loro visibilità mediatica può provocare una lacerazione profonda nell’opinione pubblica israeliana. Chiedono infatti che l’esecutivo accetti la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi detenuti a Gaza, il cosiddetto accordo «tutti per tutti», richiesto da Hamas. I familiari degli ostaggi non si fidano dei blitz delle truppe israeliane entrate nella Striscia e i continui bombardamenti su Gaza, in cui potrebbero morire anche i loro cari, costituiscono un dolore insostenibile. Sarebbe del resto un’altra ferita gravissima, nonostante le opinioni di alcuni ministri oltranzisti, se gli ostaggi perdessero la vita per nuovi errori militari del governo di Israele. Proprio da diversi familiari delle vittime israeliane dell’attacco del 7 ottobre, sono arrivati nelle scorse settimane gli appelli più toccanti contro la rappresaglia in atto nella Striscia di Gaza.