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La Scuola per la pace e il dialogo in tempi cupi

Giulia Ceccutti
16 novembre 2023
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La Scuola per la pace e il dialogo in tempi cupi
Un'assemblea dell'ottobre scorso degli abitanti di Neve Shalom Wahat al Salam facilitata dalla Scuola per la pace. (foto Scuola per la pace/Nswas)

Al Villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam, in Israele, la Scuola per la pace lavora a ritmi ancora più incalzanti in questa stagione difficilissima per le relazioni tra ebrei e arabi. La violenza cresce e dialogare è più difficile, ma non meno indispensabile.


«Tutti noi della Scuola per la pace siamo scioccati e addolorati per le atrocità commesse da Hamas e per la risposta letale che Israele sta mettendo in atto a Gaza. Questo circolo vizioso di violenza, terrore e punizione lacera l’anima. Personalmente sono molto stanco. Non da oggi, ma a causa dell’iper-lavoro e del profondo coinvolgimento emotivo dell’ultimo mese. Stiamo lavorando davvero tanto. Avvertiamo da più parti un bisogno della nostra esperienza e delle nostre competenze: un bisogno forte come mai prima d’ora». Al telefono dal suo ufficio, Roi Silberberg, direttore della Scuola per la pace del Villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam, in Israele, non nasconde la propria preoccupazione e una certa stanchezza.

Facilitare il dialogo

Roi sottolinea, però, anche la determinazione che anima l’istituzione di cui è a capo e la fiducia nel contributo che può dare: «Anche se siamo solo una goccia in un mare in tempesta, continuiamo a lottare per una società giusta e democratica, utilizzando gli strumenti che abbiamo sviluppato nel corso degli anni e contando sulla fiducia faticosamente coltivata tra la nostra Scuola e i suoi diplomati, ebrei e palestinesi. Non importa che la convivenza sia difficile o meno, ma che sia possibile. Questo è il messaggio che non ci stanchiamo di ripetere. In un clima di incitamento estremo, disumanizzazione e visione dell’“altro” come nemico, occorre educare a vedere gli altri come esseri umani».

Roi Silberberg (foto Scuola per la pace/Nwsas)

Chiediamo a Roi un commento sul quadro attuale, pur nella difficoltà di delineare scenari ora, a poco più di un mese dallo scoppio del conflitto. «Non c’è modo di prevedere le conseguenze di questi eventi sulle nostre società, perché sono ancora in corso – risponde –, ma abbiamo il polso della situazione e stiamo lavorando per valutare innanzitutto gli effetti sulle relazioni ebraico-palestinesi. Prioritario per noi ora è individuare le corrette strategie per re-indirizzare le nostre azioni, aumentarne l’efficacia e sostenere al meglio allievi ed ex allievi alla luce delle loro nuove esigenze».

Il silenzio e la paura della violenza

Dalle osservazioni condotte, durante gli incontri, dallo staff dei facilitatori – ebrei e palestinesi – sono emersi finora due aspetti principali.

In primo luogo, racconta Roi, «registriamo il silenzio, perlopiù da parte palestinese. Ma, se andiamo un po’ più in profondità, anche da parte ebraica. Durante le sessioni di dialogo, gli ebrei sentono di non avere la stessa libertà di prima nel parlare delle loro relazioni con i palestinesi. Percepiscono un senso di controllo, o auto-controllo, sul proprio modo di esprimersi e sulle proprie vite».

→ Leggi anche: Rabbini per i diritti umani: Stop alla violenza!

L’altro aspetto prevalente è quello della crescita della violenza. Non solo nella guerra a Gaza e con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, ma anche a Gerusalemme e in particolare a Gerusalemme Est, nelle città miste d’Israele, nei Territori occupati. «Nei Territori è in atto una massiccia campagna da parte dei coloni più estremisti per evacuare i palestinesi dalla Cisgiordania», sottolinea Roi, che cita l’appello apparso su Haaretz lo scorso 31 ottobre e firmato, tra gli altri, anche dalla Scuola per la pace (ne abbiamo riferito qui).

«I partecipanti agli incontri parlano di tutto questo – continua – e hanno paura che la violenza crescerà e che ne saremo travolti. Ciò che stiamo facendo, quindi, è dotare le persone di uno “spazio sicuro” nel quale potersi esprimere. Perché sentiamo che, in questa atmosfera, quando si sentono libere di parlare, le persone hanno modo anche di pensare. E parlare è pensare. L’unico modo in cui possiamo andare avanti e attuare un cambiamento vero è attraverso il dialogo».

Facilitare il dialogo in tempo di crisi

La Scuola sta continuando i corsi di educazione al dialogo che erano già in programma, online ma anche di persona. Facilita incontri e momenti di confronto all’interno della comunità di Neve Shalom Wahat al Salam, sia tra i residenti ebrei e palestinesi, che per lo staff misto e i genitori dei bambini della scuola primaria. Svolge poi consulenze e momenti di facilitazione per numerose istituzioni e realtà, tra le quali il Carmel Hospital di Haifa, la scuola bilingue Hagar a Beer Sheva, il Davidson Center for education, la Jerusalem Academy of Music and Dance.

Un’attenzione speciale è riservata ai programmi nelle città a popolazione mista, ebraica e araba, in Israele: «Lavoriamo con un gruppo decisamente dinamico, che coinvolge attivisti, organizzazioni, centri di educazione non formale, musei e vari altri soggetti», commenta Roi.

Uno scatto d’archivio delle attività della Scuola per la pace. (foto Nswas)

La Scuola, infine, ha da poco introdotto una novità nel proprio metodo: ogni attività viene documentata, con l’obiettivo di raccogliere materiale per avviare un lavoro di studio e ricerca sul tema del «dialogo in tempo di crisi».

«Stiamo naturalmente cercando anche di fare pressione, attraverso i media, per fermare questa guerra», conclude Roi. «Penso che il messaggio principale da far passare ora sia proprio quello di cessare subito il conflitto. Vi incoraggio pertanto a fare pressione, insieme a noi, sulla comunità internazionale e sul vostro governo».

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