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Guardare la guerra dall’altra parte

Paola Caridi
21 novembre 2023
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Questo ottobre di guerra mi ha colto ad Amman, la capitale giordana. Qui la guerra su Gaza va in onda quotidianamente. Minuto per minuto. Bombardamento per bombardamento. Così la vive l'opinione pubblica araba.


Mi è toccato in sorte di essere ad Amman in Giordania, durante quest’ultimo ottobre di guerra. Una sorte che ho accolto come una possibilità: guardare la guerra un po’ meno da lontano, e guardarla come la guarda l’intera regione, il Medio Oriente. Quale più essere la differenza, se di fronte a questa guerra non sei testimone, ma solo spettatore? La distanza accorciata? I duecento chilometri in linea d’aria che separano Amman dalla Striscia di Gaza?

Certo, la distanza dice molto. Quei duecento chilometri non significano solo vicinanza. Disegnano una terra in cui un pugno di chilometri significa una separazione continua, confini, check-point, passaporti diversi, un complesso meccanismo che mostra la follia del cosiddetto ordine di Westfalia vecchio di secoli, l’ordine degli Stati-nazione che ha segnato la nostra storia contemporanea.

La terra che sembra così simile, vista da Amman e da Gerusalemme, è ferita da segni di cemento che riscrivono la vita quotidiana e il significato della cittadinanza e dei diritti dei suoi abitanti. La differenza non è, però, solo nella distanza, nello spazio contenuto: è nella prospettiva attraverso la quale si guarda alla guerra. E nel caso più specifico, si guarda a Gaza e alla Cisgiordania. Metà della popolazione giordana è di origine palestinese, appartiene cioè a quel periodo della storia – mai dimenticato – dell’espulsione, della cacciata del 1948 e del 1967. I profughi di Gaza, la cacciata in corso dei palestinesi dalle piccole comunità attorno a Hebron e a Nablus da parte dei coloni radicali israeliani, sostenuti dall’esercito, incidono sull’anima di chi vive in Giordania.

Sono però le immagini a segnare una differenza abissale. Dal 7 ottobre, ad Amman e a Roma, sono andate in onda immagini diverse. Identiche quelle sul 7 ottobre, e sull’attacco terroristico compiuto da Hamas dentro Israele, lungo la fascia oltre i confini sigillati di Gaza. Le immagini crude dell’attacco sono passate su Al Jazeera, così come, dal giorno dopo, sono passate le immagini crude dei bombardamenti israeliani su Gaza. A Roma, le immagini quotidiane della strage in corso a Gaza non si vedono.

Qui sta la differenza. Ad Amman la guerra su Gaza è andata in onda quotidianamente. Minuto per minuto. Bombardamento per bombardamento. In una litania della sofferenza dei civili che ha inciso dentro l’anima. La differenza è nell’immane misura del dolore inflitto, su Gaza e su chi – astante – ha passato l’ottobre 2023 della guerra di fronte agli schermi accesi, giorno e notte, dentro i panifici e i barbieri, nei ristorantini e in farmacia, nelle case e negli uffici. Schermi di tivù e cellulari, «sintonizzati» su tutto ciò che i social – TikTok in primis – hanno trasmesso senza interruzione.

Lo iato, sempre più profondo, è tra un’opinione pubblica – giordana, egiziana, araba, e oltre la regione araba, più a oriente – che vede le immagini della guerra su Gaza, e un’altra opinione pubblica – quella genericamente occidentale – che non le vede, perché quelle immagini vengono trasmesse con il contagocce. Non vedere quelle immagini significa non poter comprendere la grandezza di ciò che sta succedendo, e dunque quali saranno le conseguenze. Nella regione, e oltre. Non mostrare quelle immagini significa non mostrare tutta la fotografia della tragedia, nella sua dimensione complessiva. E rendere incomprensibile ciò che succede giorno per giorno, e succederà nei prossimi mesi.

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