Mentre gli sguardi del mondo dal 7 ottobre si sono comprensibilmente rivolti alle tragedie che hanno colpito i civili in Israele e a Gaza, il conflitto tra Armenia e Azerbaigian nel Caucaso è sfociato nell’esodo forzato di oltre centomila armeni, che hanno abbandonato – forse per sempre – il Nagorno Karabakh, per riparare all’interno dei confini dello Stato armeno. La realtà di due popoli incapaci di vivere in pace nella stessa terra si ripropone in modo tragico, anche se con minore attenzione da parte della comunità internazionale.
Dopo il violento attacco, sferrato il 19 settembre dall’Azerbaigian e durato pochi giorni, quello che restava dell’autonomia degli armeni che da secoli vivevano in questa regione montuosa, ufficialmente parte della repubblica azera, è finito. Migliaia di famiglie hanno dovuto fuggire in pochi giorni attraverso il corridoio di Lachin abbandonando case e terreni, chiese e cimiteri, le memorie della presenza antica di una minoranza cristiana. Il più violento segnale dei pericoli che gli abitanti di Stepanakert e dei villaggi vicini stavano correndo è stata la morte di almeno 170 armeni nell’esplosione di un serbatoio di carburante, mentre cercavano di fare rifornimento per preparare la fuga. Ami Manukian, ricercatrice del Matenadaran (il prestigioso istituto di ricerca che a Yerevan cura e promuove la più importante collezione di manoscritti e pergamene della storia armena), ci ha raccontato degli aiuti di emergenza ai profughi dalla città di Goris, uno dei centri armeni di prima accoglienza.
«La situazione è devastante da ogni punto di vista – ha denunciato –. Dal 19 settembre, gli armeni del Nagorno Karabakh erano stati lasciati senza rifornimenti e beni essenziali che arrivavano dall’Armenia per la loro sopravvivenza, perché il transito nel corridoio di Lachin era interrotto e i militari russi che dovevano garantirne il funzionamento non si preoccupavano più della sua apertura. Affamati, nascosti nelle cantine, molti armeni del Karabakh, soprattutto ex-combattenti nelle due guerre precedenti, si sono sentiti sotto minaccia delle vendette dei soldati azeri. Dal 24 settembre hanno capito che la loro sicurezza personale era sempre più precaria ed è iniziata una fuga di massa precipitosa». Gli armeni della regione avevano creato un piccolo Stato autonomo (Artsakh) dopo la guerra del 1988-1994 vinta con l’aiuto dei russi. Una seconda guerra vinta dagli azeri, nel 2020, ha ribaltato lo scenario. Ma pogrom, episodi di stragi di civili, hanno contrassegnato momenti della storia recente per entrambi i popoli.
La chiave di lettura dello scontro tra musulmani azeri e cristiani armeni è una semplificazione, anche se oggi si assiste a una pulizia etnica di una minoranza di cristiani orientali, come se le tragedie del Novecento, anche in quelle terre, si riproponessero senza fine. Sia Armenia sia Azerbaigian dal 2001 sono Paesi membri del Consiglio d’Europa, la più importante organizzazione del continente che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, protegge le libertà fondamentali degli individui. Ma né l’esistenza della Convenzione europea sui diritti umani, né le pressioni politiche dei Paesi europei (Ue e altri vicini) dove vivono in pace decine di minoranza etniche, religiose e linguistiche hanno permesso di costruire un percorso di pace e convivenza. L’odio verso l’altro e memorie tragiche sedimentate nei secoli, da entrambe le parti – per gli armeni il genocidio alla fine dell’Impero ottomano – sembrano oggi ostacoli insormontabili per risolvere un conflitto secolare che dopo la fine dell’Urss non ha trovato una soluzione. Autorità e popolazione della piccola repubblica armena, poco più grande della Sicilia e con meno di 3 milioni di abitanti, si sono attivate per registrare e dare accoglienza.
Le questioni più complesse cui Yerevan sta dando risposta riguardano gli alloggi e il lavoro per gli esuli. Il sogno dell’Azerbaigian di dare continuità territoriale alla sua provincia occidentale del Nakhchivan (che confina con la Turchia) con il resto del Paese a Est si può realizzare solo a scapito dell’Armenia indebolita e isolata, invadendo la regione meridionale del Syunik. Un’ipotesi che non può essere esclusa, nel quadro attuale di instabilità di tutto il Medio Oriente.
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