Concordiamo un’intervista telefonica la mattina molto presto. «Mi scusi, più tardi non posso perché sono giorni piuttosto pieni e impegnativi», mi scrive in un messaggio Yael Noy. Da sei mesi è la presidente di The Road to Recovery (La strada per la guarigione, in ebraico Ba’derech L’Hachlama), associazione israeliana nata nel 2010. A fondarla Yuval Roth, tra i membri di Parents Circle, il forum di famiglie israeliane e palestinesi in lutto per aver perso dei propri cari, rimasti uccisi nel conflitto in corso.
The Road to Recovery, come abbiamo già raccontato tempo fa, è un’organizzazione formata da una fitta rete di volontari ebrei che trasportano, con le loro auto, malati palestinesi – per la maggior parte bambini, bisognosi di cure salvavita – fino ad ospedali israeliani. Vanno a prenderli e li riportano ai numerosi check-point dislocati in tutto Israele al confine con i Territori Occupati. Fino al 7 ottobre scorso parte dei pazienti transitava dal valico di Erez, a nord della Striscia di Gaza. Ora, com’è noto, il valico è chiuso.
Dal 2010 a oggi, le attività dell’associazione – che fino a settembre contava 1.300 volontari in tutto Israele, coordinati da 17 attivisti – non si sono mai interrotte, neppure durante i periodi di conflitto né i mesi più bui della pandemia di Covid-19.
Yael abita a Gita, un piccolo villaggio nel nord d’Israele che da qualche giorno ha ricevuto un ordine di evacuazione a causa degli attacchi di Hezbollah dal Libano. È tra gli abitanti che hanno scelto di rimanere: spera infatti che nell’arco dei prossimi giorni le cose miglioreranno. È però nata e cresciuta ad Alumim, un kibbutz vicino alla Striscia di Gaza distrutto durante gli attentati di Hamas del 7 ottobre. A lungo è stata la coordinatrice di The Road to Recovery per la Striscia.
«La situazione è molto, molto difficile. Non può immaginare quanto», la telefonata inizia così. «Personalmente, piango per tutti gli israeliani che sono stati uccisi o rapiti durante l’attacco di Hamas nel sud del Paese, e ho paura per tutti i miei bambini e gli amici palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza. Tenere insieme il dolore di tutti è impossibile». Yael non riesce a trattenere le lacrime.
Sono 8 (ma il numero è destinato, purtroppo, a salire) i volontari dell’associazione, o familiari di volontari, uccisi da Hamas nei kibbutz e nelle città del sud, quali Kfar Aza, Na’an, Be’eri, Ashkelon. In 7 si trovano tuttora tra gli ostaggi rapiti e portati nella Striscia. Tutti i kibbutz degli attivisti che abitavano nella zona al confine con la Striscia di Gaza oggi non esistono più: «I nostri amici non hanno più una casa», ricorda Yael.
«Sto lottando con tutta me stessa – continua – per cercare di rimanere una brava persona. Ma non è facile; mi verrebbe da dire: “Al diavolo tutto!”. Qualcosa nel mio cuore si è spezzato. Ma ne abbiamo discusso con gli altri membri dell’associazione: non possiamo buttare via tutto quello che in tredici anni abbiamo costruito. Non possiamo e non vogliamo, anche se ora ci costa moltissimo».
Così, i passaggi in auto per i pazienti palestinesi dai Territori Occupati stanno continuando, tra emozioni contrastanti e difficoltà di vario tipo. Yael spiega che gli ostacoli maggiori sono ora rappresentati dal minor numero di permessi concessi dal governo israeliano per l’uscita dai Territori; dalla ridotta disponibilità degli ospedali ad accogliere altri pazienti (resta alto il numero dei feriti israeliani a seguito delle violenze dei giorni scorsi); dalla paura dei palestinesi stessi a intraprendere queste trasferte.
«Cerchiamo di fare del nostro meglio per aiutare», commenta Yael. «I volontari stanno dando una trentina di passaggi al giorno, andata e ritorno. Il numero va crescendo quotidianamente e ho fiducia continuerà a farlo».
Attualmente gli ospedali presso cui vengono accompagnati i malati si trovano nella zona di Tel Aviv (Tel Aviv Sourasky Medical Center, Shiba Hospital di Ramat Gan e Schneider Children’s Medical Center, a Petah Tikva) e nel nord, a Haifa, come nel caso del Rambam Hospital.
La narrazione nei media israeliani non lascia spazio in questo momento a storie come quella di The Road to Recovery. «Nessuno degli organi di stampa e televisione del Paese ci sta prestando ascolto. Siamo visti come nemici, o come amici dei nemici. La realtà è che non vogliono ascoltarci, né far sapere ciò che facciamo. Qualche giornalista ci ha anche contattato, ha chiesto cosa pensiamo di cose come “riconciliazione” e via di seguito. Ma poi nulla è stato pubblicato».
Chiediamo a Yael di dirci quel poco che possiamo fare dall’Italia, oltre naturalmente a prestare loro voce. «Pregate per noi e abbracciateci. Abbiamo bisogno di questo: preghiere e un abbraccio».