(g.s.) – Insieme con altri 20 ecclesiastici di varie parti del mondo, il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, è diventato cardinale nella mattinata di sabato 30 settembre – in una piazza San Pietro non molto affollata – durante il Concistoro pubblico convocato da papa Francesco il 9 luglio scorso.
All’inizio della celebrazione il primo nell’elenco dei nuovi cardinali – vale a dire il prefetto del Dicastero vaticano per i Vescovi, Robert Francis Prevost – ha rivolto a Francesco, a nome di tutti e 21 i neo-cardinali, parole di omaggio e di ringraziamento.
I 21 neo-cardinali al Papa: «Grati per la fiducia»
Ne citiamo qui solo due passaggi: «Le siamo grati – ha detto Prevost a Francesco – perché, con questa nomina, ci considera degni della sua fiducia e in grado di esprimere un discernimento utile al complesso governo della Chiesa universale. Dal suo esempio personale, ci sentiamo esortati a cercare la radicalità evangelica di ogni nostra azione, ad orientare il pensiero ad una lettura della Chiesa e del mondo che vorremmo vedere con uno sguardo capace di comunicare l’amore e la misericordia di Dio».
Accennando all’imminente assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, Prevost ha soggiunto: «Essere una Chiesa sinodale che sa ascoltare tutti, è la via non solo per vivere personalmente la fede, ma anche per crescere nella vera fraternità cristiana. Lei ci ha ricordato che è necessario imparare ad ascoltare come i santi, come san Francesco d’Assisi che “ha ascoltato la voce di Dio, la voce dei poveri, la voce dei malati, la voce della natura. E tutto questo lo ha trasformato in uno stile di vita” (cfr. Fratelli tutti, n. 48). Al di là della ricerca di nuovi programmi o modelli pastorali, sempre necessari e importanti, credo che dobbiamo sempre meglio comprendere che la Chiesa è pienamente tale solo quando veramente ascolta, quando cammina come nuovo popolo di Dio nella sua meravigliosa diversità, riscoprendo continuamente la propria chiamata battesimale a contribuire alla diffusione del Vangelo e del Regno di Dio».
Papa Francesco: «Abbiamo ricevuto la fede in dialetto»
Dopo il breve discorso è stato proclamato il brano degli Atti degli Apostoli (2,1-11) che narra l’episodio della Pentecoste. Il Papa l’ha commentato nel corso dell’omelia, rivolgendosi ai 21 neo-cardinali: «Ecco, questa Parola del Libro degli Atti ci fa pensare che, prima di essere “apostoli”, prima di essere sacerdoti, vescovi, cardinali, siamo “Parti, Medi, Elamiti” eccetera eccetera. E questo dovrebbe risvegliare in noi lo stupore e la riconoscenza per aver ricevuto la grazia del Vangelo nei nostri rispettivi popoli di origine. Ritengo che ciò sia molto importante e da non dimenticare. Perché lì, nella storia del nostro popolo, direi nella “carne” del nostro popolo, lo Spirito Santo ha operato il prodigio della comunicazione del mistero di Gesù Cristo morto e risorto. Ed è arrivato a noi “nelle nostre lingue”, sulle labbra e nei gesti dei nostri nonni e dei nostri genitori, dei catechisti, dei sacerdoti, dei religiosi… Ognuno di noi può ricordare voci e volti concreti. La fede viene trasmessa “in dialetto”. Non dimenticatevi questo: la fede viene trasmessa in dialetto, dalle mamme e dalle nonne. In effetti, siamo evangelizzatori nella misura in cui conserviamo nel cuore lo stupore e la gratitudine di essere stati evangelizzati. Anzi, di essere evangelizzati, perché in realtà si tratta di un dono sempre attuale, che chiede di essere continuamente rinnovato nella memoria e nella fede. Evangelizzatori evangelizzati, e non funzionari. Fratelli e sorelle, carissimi Cardinali, la Pentecoste – come il Battesimo di ciascuno di noi – non è un fatto del passato, è un atto creativo che Dio rinnova continuamente. La Chiesa – e ogni suo membro – vive di questo mistero sempre attuale. Non vive “di rendita”, no, e tanto meno di un patrimonio archeologico, per quanto prezioso e nobile. La Chiesa, e ogni battezzato, vive dell’oggi di Dio, per l’azione dello Spirito Santo. Anche l’atto che stiamo compiendo qui adesso, ha senso se lo viviamo in questa prospettiva di fede».
Poi il Papa ha osservato che «il Collegio Cardinalizio è chiamato ad assomigliare a un’orchestra sinfonica, che rappresenta la sinfonicità e la sinodalità della Chiesa».
Come un’orchestra
«Dico anche la “sinodalità”, non solo perché siamo alla vigilia della prima Assemblea del Sinodo che ha proprio questo tema, ma perché mi pare che la metafora dell’orchestra possa illuminare bene il carattere sinodale della Chiesa. Una sinfonia vive della sapiente composizione dei timbri dei diversi strumenti: ognuno dà il suo apporto, a volte da solo, a volte unito a qualcun altro, a volte con tutto l’insieme. La diversità è necessaria, è indispensabile. Ma ogni suono deve concorrere al disegno comune. E per questo è fondamentale l’ascolto reciproco: ogni musicista deve ascoltare gli altri».
Dopo l’omelia papale e un breve momento di silenzio i 20 porporati presenti (per ragioni d’età e di salute è rimasto a Buenos Aires il frate cappuccino 96enne Luis Pascual Dri) hanno lasciato i loro posti a sedere alla sinistra del palco papale per sostare in piedi davanti ad esso. Lì, già rivestiti del rosso porpora, hanno professato ancora una volta pubblicamente la fede cattolica e giurato fedeltà e obbedienza al Papa e ai suoi successori. Ciascuno poi si è inginocchiato davanti al Papa che, recitando una formula in latino, ha posto sul capo la berretta cardinalizia, infilato all’anulare destro un anello dorato, e consegnato, su pergamena arrotolata, il titolo, o la diaconia, di una chiesa romana.
Il Papa incoraggia
A ogni cardinale Francesco ha detto qualche parola, talvolta intercettata dal vicino microfono, come nel caso del cardinale Pizzaballa – al quale è stato assegnato il titolo di Sant’Onofrio al Gianicolo – che si è sentito dire: «Coraggio e avanti!».
Da Gerusalemme, per partecipare a questo momento importante per il Patriarcato latino è giunto un buon numero di persone. Tra gli altri il patriarca greco-ortodosso Theophilos III (che Francesco ha ricevuto in udienza privata venerdì 29 settembre) e il custode di Terra Santa, Francesco Patton, con il vicario Ibrahim Faltas. Presenti al rito anche numerosi rappresentanti ecumenici. Per citarne due soltanto: il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo e l’arcivescovo (anglicano) di Canterbury, Justin Welby.
Terminata la cerimonia in piazza i neo cardinali hanno ricevuto i saluti e le felicitazioni dei fedeli intervenuti alla cerimonia (nelle cosiddette “visite di cortesia”) all’interno dei palazzi vaticani.
Per il cardinale Pizzaballa e i tanti che gli si sono stretti attorno un altro momento di gioia è stata la messa celebrata la mattina di domenica 1 ottobre dal patriarca latino nella basilica di Santa Maria Maggiore (dove si conservano reliquie della mangiatoia di Betlemme).
Con lo sguardo di Pietro
Nell’omelia (il cui testo scritto è più articolato di quello effettivamente pronunciato in italiano e via via tradotto in arabo) il patriarca si è chiesto: «Cosa aggiunge questa nomina a cardinale? Perché ne siamo tutti contenti? È solo una eco antica di una corte che non c’è più? È solo una tradizione venerabile certo ma ormai un po’ folkloristica, incomprensibile per tanti? È solo un onore, per quanto legittimo, concesso dal Papa di cui andare fieri?» «Se fosse solo questo – ha osservato –, non avrebbe senso “celebrarla” in una liturgia, inserirla cioè nella trama misteriosa ma reale dei rapporti del Signore con noi e nostri con Lui, viverla come un radicamento profondo nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. Sono convinto, infatti, che ogni nuovo ministero, ogni servizio, ogni “titolo” che la Chiesa chiama a ricoprire non è tanto un nuovo gradino per salire più in alto, ma un invito ad andare più a fondo, anzi “fino in fondo” (usque ad sanguinis effusionem, dice l’antica formula). E il cardinalato, per chi lo riceve e per chi è in vario modo a lui collegato, nella misura in cui unisce (incardina) più strettamente alla Chiesa di Roma e al suo Vescovo, invita tutti noi a fare ancora più nostro lo sguardo proprio della Chiesa, una nuova partecipazione, ciascuno secondo il dono ricevuto, alla episkopè, allo “sguardo dall’alto” che il Vescovo di Roma ha sulla Chiesa universale, che è “lo sguardo di Pietro”».
«Lo sguardo di Pietro – ha soggiunto il cardinale poco dopo – è innanzitutto uno sguardo esperto della propria debolezza e, perciò, della misericordia di Dio, della divina capacità, cioè, di far emergere il Suo sì dentro i nostri no, di attenderci con pazienza dentro il nostro tentennare nella fedeltà, di accompagnarci dentro i nostri ricorrenti andirivieni nell’amore fedele e responsabile. L’entusiasmo irruente di Pietro e le sue paure, il suo rinnegamento e le sue lacrime, il suo amore sincero ma timoroso, dicono di uno sguardo che ha saputo scoprire l’amore dentro il fallimento, la vittoria nell’apparente sconfitta, la fiducia dentro le contraddizioni e il rinnegamento. Essere cardinale, è dunque, lo interpreto come un invito a metterci da questo punto di vista, di chi sa guardare alla debolezza dei fratelli con amore intelligente e sincero, di chi contempla la complessità della storia con fiducia e speranza».
Ripartire da Cristo
«Amici miei carissimi – ha detto il patriarca Pizzaballa –, ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, noi siamo sotto lo sguardo di Cristo e lo assumiamo perché diventi il nostro. Celebrarla da Cardinale oggi significa accettare di farci discepoli per guardare ogni cosa, con Pietro, a partire da Cristo. Insieme a Pietro, siamo chiamati a guardare sempre di nuovo a Cristo, ad avere occhi per Lui. In particolare, pur dentro le inevitabili difficoltà che, oggi più di ieri, caratterizzano il cammino cristiano, ci sentiamo chiamati a scegliere Cristo e il suo Vangelo come Via, Verità e Vita del nostro pensare e del nostro agire. In tempi di grande disorientamento e confusione, la Chiesa è chiamata a ripartire da Cristo, Maestro e Signore. Il suo Vangelo non è semplicemente un codice etico o, peggio, solo un serbatoio cui attingere un galateo religioso e civile. Il Vangelo di Cristo, il Vangelo che è Cristo, è Parola che promette vita ma chiede di essere accolto da una fede che si fa scelta di conversione e di cambiamento anche sociale».
«L’identità cristiana non è un baluardo, ma una casa ospitale»
Avviandosi alla conclusione il cardinale ha rimarcato: «E anche qui – perdonatemi – non posso non pensare a Gerusalemme e alla Terra Santa, alla mia Diocesi cui in questo momento vanno il mio affetto e il mio ringraziamento per le tante testimonianze di stima e di vicinanza ricevute in questi mesi. Quella terra, splendida e drammatica, è un crocevia di culture, sensibilità, religioni, persone e in quel contesto, noi cristiani siamo davvero pochi e, secondo calcoli solamente umani, irrilevanti. La tentazione di guardare a tanta diversità con lo sguardo di Pietro prima che incrociasse lo sguardo di Cristo, cioè con uno sguardo impaurito e forse, proprio per questo, aggressivo e violento, è forte. La politica, le istituzioni culturali e sociali e, talvolta, perfino le Chiese possono scegliere la via della rivendicazione, del conflitto, dell’interesse di parte, anche della violenza. Occupare spazi togliendoli agli altri, percepiti come rivali e nemici, sembrerebbe essere l’unica via per sopravvivere. (…) Ma noi cristiani siamo diversi, dobbiamo essere diversi, perché siamo chiamati a scegliere ogni giorno di essere discepoli di Cristo, e da oggi ancora di più, fino in fondo, fino alla fine, usque ad sanguinis effusionem. Dobbiamo camminare dietro il Maestro disposti ad andare anche là dove la nostra sensibilità, talvolta giustamente offesa, non vorrebbe andare. La differenza cristiana non consiste nelle nostre forze, nelle nostre proprietà, nel nostro eventuale prestigio. La differenza cristiana sta nelle nostre scelte di riconciliazione, di dialogo, di servizio, di vicinanza, di pace. Per noi l’altro non è un rivale, è un fratello. Per noi l’identità cristiana non è un baluardo da difendere, ma una casa ospitale e una porta aperta sul mistero di Dio e dell’uomo dove tutti sono benvenuti. Noi, con Cristo, siamo per tutti».
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Consiglieri ed elettori
(g.s.) – I cardinali sono i più vicini collaboratori del papa, lo consigliano sulle questioni di maggior rilievo nella vita della Chiesa e lo coadiuvano nella sua attività di governo. Sono, in genere, alla testa dei principali dicasteri della Curia romana. Quando il papa viene meno, per morte o dimissioni, governano collegialmente – ma con potestà limitata – la fase transitoria (sede vacante). Spetta solo a loro eleggere il nuovo pontefice. Una consuetudine storica ormai consolidata vuole che sia scelto proprio tra i cardinali.
Una riunione di cardinali convocata dal papa durante il suo pontificato si chiama Concistoro, mentre quelle che si svolgono in periodo di sede vacante sono le Congregazioni generali. Prende il nome di Conclave la solenne riunione – protetta da grande riservatezza e norme stringenti per garantire la libertà di coscienza degli elettori – durante la quale i cardinali, riuniti nella Cappella Sistina, eleggono il nuovo papa a scrutinio segreto.
Essendo scelti tra il clero, i cardinali sono tutti di sesso maschile. Di norma, i prescelti dovrebbero essere già vescovi al momento della creazione (o nomina), ma il papa è sovrano e può concedere deroghe. Non è affatto raro che succeda. In quest’ultimo Concistoro del 30 settembre c’erano due cardinali non (ancora) vescovi: il rettor maggiore dei salesiani Ángel Fernández Artime (che per un anno resta alla guida della sua famiglia religiosa) e il 96enne frate cappuccino Luis Pascual Dri, che nella capitale argentina, Buenos Aires, non ha bisogno di essere vescovo per continuare quell’attività di confessore che gli è valsa la stima di papa Francesco. Anche nel Concistoro del 28 novembre 2020, il Papa concesse a uno dei neo-cardinali di non essere consacrato vescovo: il frate cappuccino, e predicatore della Casa Pontificia, Raniero Cantalamessa, oggi 89enne.
Proprio per sottolineare lo stretto legame dei cardinali con il papa, vescovo di Roma, ciascuno di loro entra simbolicamente a far parte del clero romano. Così ogni cardinale ha il titolo di una chiesa parrocchiale, o non parrocchiale, veramente esistente in città anche ai giorni nostri. Qualche tempo dopo la nomina, ogni cardinale «prende possesso» della chiesa che gli è stata assegnata dal papa, celebrandovi una messa solenne. Non avrà però alcun ruolo amministrativo o pastorale nella vita di quella comunità. Il cardinale Pizzaballa, ad esempio, ha ricevuto il titolo di Sant’Onofrio al Gianicolo, chiesa che sorge a pochi passi dal Vaticano e confina con l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù.
Il collegio cardinalizio è presieduto (come primus inter pares) dal decano, che attualmente è l’89enne Giovanni Battista Re.
Alla data del primo ottobre 2023, riferiscono le statistiche della Santa Sede, i cardinali sono 242; 106 hanno già compiuto 80 anni e quindi, in base alle norme vigenti, hanno perso il diritto a partecipare al Conclave in veste di elettori.
I cardinali elettori (cioè non ancora ottantenni) sono al momento 136, 16 in più rispetto ai 120 che la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis – emanata nel 1996 da san Giovanni Paolo II e tuttora in vigore, sia pure con emendamenti di Benedetto XVI – indica come numero massimo di elettori. Dei 136 già menzionati 98 sono stati creati cardinali da papa Francesco, 29 da Benedetto XVI, 9 da san Giovanni Paolo II. Se si considera l’area geografica di provenienza, 52 elettori sono europei, 17 del Nord America, 5 dell’America Centrale, 17 dell’America del Sud, 19 dell’Africa, 23 dell’Asia, 3 dell’Oceania. I cardinali elettori di nazionalità italiana sono 16, inclusi anche i due missionari in Asia: Pierbattista Pizzaballa (Gerusalemme) e Giorgio Marengo (Mongolia).
Un dubbio finale a proposito degli elettori italiani: stando al diritto vigente, il cardinale Angelo Becciu, sanzionato da papa Francesco e sottoposto a giudizio dal tribunale vaticano, ha perso il diritto a votare in Conclave?