(g.s.) – Si conclude ormai la terza settimana di questa nuova drammatica fase del conflitto israelo-palestinese (il più lungo della storia contemporanea).
Le azioni terroristiche messe in atto dagli uomini di Hamas e di altre milizie annidate a Gaza il 7 ottobre scorso hanno generato negli israeliani uno choc profondo. Pur vivendo costantemente in allerta non immaginavano che una simile violenza potesse raggiungerli fin dentro le loro case, falciando vite in modo brutale e selvaggio.
Dal punto di vista dei numeri, i contorni di quello che passerà alla storia di Israele come “il Sabato nero” non sono ancora definiti. Si calcola che in una manciata di ore siano state uccise (da quanti assalitori non si sa di preciso) tra le 1.300 e le 1.400 persone (forse più). Molte spoglie sono ancora negli obitori – alcuni allestiti in tutta fretta – in attesa di riconoscimento, talvolta possibile solo attraverso il Dna fornito dai familiari. Altri resti potrebbero essere rimasti, carbonizzati, dentro le stanze annerite delle case incendiate dagli assalitori.
Non tutte le vittime sono israeliane, o ebree con doppia cittadinanza. Non pochi i lavoratori e lavoratrici stranieri, soprattutto asiatici, assassinati.
Non solo israeliani
Proprio oggi, 27 ottobre, il quotidiano The Times of Israel prova ad aggiornare i dati sulla scorta di fonti attendibili.
Secondo il governo di Bangkok sono 33 i cittadini thailandesi rimasti uccisi, mentre 18 sono considerati dispersi (forse tra i rapiti, di cui diremo più avanti). Si calcola che i lavoratori thai in Israele siano circa 30mila, quasi tutti utilizzati come manodopera in agricoltura.
Sarebbero 10 le vittime nepalesi, essenzialmente studenti di materie agrarie che si trovavano nel Paese per un periodo di stage formativo.
Quattro morti sarebbero filippini, per lo più badanti. Due loro connazionali sono tra i dispersi.
La lista è lunga. Includendo coloro che avevano doppio passaporto, secondo i calcoli di The Times of Israel sarebbero circa 200 le vittime con altra nazionalità. Oltre a quelle già menzionate, dichiarano la presenza di propri connazionali tra i deceduti anche le autorità diplomatiche o governative di Francia, Regno Unito, Russia, Ucraina, Germania, Argentina, Canada, Romania, Portogallo, Cina, Austria, Italia (3), Bielorussia, Brasile, Perù, Sud Africa, Cambogia, Cile, Turchia, Spagna, Colombia, Australia, Honduras, Irlanda, Azerbaijan, Svizzera.
Secondo l’ong israeliana Hotline for refugees and migrants – fondata nel 1998 per difendere i diritti di profughi e migranti in Israele e combattere la tratta di esseri umani – ci sono anche un sudanese tra gli uccisi e un eritreo tra i dispersi.
La triste contabilità subirà probabilmente ulteriori aggiustamenti e si cristallizzerà più avanti, passato un certo tempo e concluso il meticoloso lavoro di analisi forensi e di raccolta e catalogazione di video (incluse le riprese delle GoPro indossate dai terroristi nel corso della mattanza), testimonianze, reperti, prove da utilizzare al momento opportuno, in sede giudiziaria, contro gli assalitori catturati vivi e i loro complici e mandanti.
Gli ostaggi da salvare
Continua a crescere, intanto, il numero delle persone che si ritiene siano state rapite e portate come ostaggi dentro la Striscia. All’inizio si ipotizzava fossero un centinaio, di tutte le età – bambini inclusi – e condizioni fisiche; ora il numero è salito a 229 (militari e civili), escluse le quattro donne liberate nei giorni scorsi. Anche tra gli ostaggi vi sono stranieri (thailandesi, statunitensi, francesi, russi, tedeschi, rumeni, ungheresi, messicani, paraguayani, tanzaniani, srilankesi).
Come era prevedibile, familiari e amici degli israeliani rapiti si sono mobilitati e premono sul loro governo e su quelli delle nazioni amiche perché si faccia di tutto per riportare a casa vivi i loro cari. Impresa non facile, che si potrà raggiungere più con le trattative diplomatiche riservate, già in corso su vari fronti, che con la forza delle armi.
I morti di Gaza
Intanto Israele continua a far piovere ordigni sulla Striscia, mentre da lì non cessa il lancio di razzi verso il territorio israeliano.
Ad oggi i morti gazesi – senza distinzione tra combattenti o civili – sarebbero oltre 7.000, secondo i dati diffusi dai palestinesi. La cifra non è verificabile da osservatori terzi sul terreno (come, del resto, è accaduto e accade in altre zone di guerra); non appare però del tutto inverosimile, considerata la potenza di fuoco dispiegata in modo incessante da tre settimane.
Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, in occasione della visita del primo ministro australiano Anthony Albanese, ieri – 26 ottobre – il presidente Joe Biden ha detto: «Non mi fido dei numeri che stanno fornendo i palestinesi». Chi la pensa come lui, menziona il caso dell’esplosione del 17 ottobre nei pressi dell’ospedale anglicano Al Ahli a Gaza. Hamas parlò subito di almeno 500 vittime, addebitandole a un bombardamento israeliano. Nei giorni successivi è parsa più plausibile la versione israeliana di un numero più contenuto di morti, causati comunque dal fallito lancio di un ordigno da parte palestinese.
Dopo lo scetticismo espresso da Biden, i palestinesi hanno diffuso una lunga lista di nomi e cognomi di defunti, desunti dai dati trasmessi dagli ospedali. Da Ramallah il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese, Mohammad Shtayeeh, si rammarica: «Certi leader – protesta – non vogliono guardare la realtà. Vogliono vedere solo quello che accade sul versante israeliano e non su quello palestinese. I numeri sono corretti. Sono i nostri numeri (non i numeri di Hamas sottintende il premier – ndr) e vengono forniti giornalmente dagli ospedali al nostro ministero della Salute».
Resta impossibile determinare, al momento, se tra le migliaia di vittime citate vi siano anche degli ostaggi israeliani.