Quella dell’arrampicata sportiva in Palestina è una storia bella da raccontare. Abbiamo chiesto di aiutarci a farlo a Dario Franchetti, cooperante e tra i fondatori dell’ong Vento di Terra, e a Hiba Shaheen, presidente della Palestine Climbing Association.
Tra il 2004 e il 2018 Franchetti ha abitato a lungo nei Territori palestinesi occupati e ha contribuito, tra i primi, a introdurre la passione per questo sport nella regione, dove ora torna un paio di volte all’anno.
Due mondi vicini ma non comunicanti
«La prima volta che sono andato per lavoro in Palestina, nel 2004, ero già un climber», dice al telefono. «Così, nel tempo libero, ho iniziato a esplorare il mondo dell’arrampicata, e a rendermi conto – insieme ad altri espatriati – che era un mondo prettamente israeliano, senza alcun contatto con quello palestinese. Ho presto capito che, da un lato, geograficamente il territorio offriva molti luoghi interessanti, e, dall’altro, la situazione politica e sociale esercitava inevitabilmente un condizionamento importante».
Franchetti spiega che mentre la cultura dell’arrampicata su roccia in Israele nella prima metà degli anni Duemila era già decisamente sviluppata (per la possibilità degli appassionati di viaggiare e aver accesso a strutture e luoghi all’aperto all’estero, oltre che nelle parti occupate da Israele in Cisgiordania, dove i palestinesi non possono accedere liberamente), in Palestina «era sostanzialmente a zero».
Non esistevano infatti pareti attrezzate indoor, né accessi adeguati alla maggior parte dei siti di arrampicata all’aperto attrezzati da climber israeliani nelle aree delle colonie dei Territori Occupati, cui i palestinesi non hanno accesso.
I siti attrezzati in Area C
Fino ad allora, infatti, gli unici luoghi per arrampicare in Cisgiordania erano falesie attrezzate dagli israeliani a loro esclusivo uso, situate nella cosiddetta Area C dei Territori (sottoposta al pieno controllo israeliano) e nelle colonie ebraiche in Cisgiordania. Per gli scalatori palestinesi, commenta Dario, spostarsi per arrampicare nell’Area C è ancora estremamente complicato, a causa del rischio di multe, arresti, problemi con le autorità israeliane o con gruppi di coloni ostili e armati, che considerano il territorio da loro occupato militarmente come di proprio esclusivo utilizzo.
«Un esempio eloquente è quello di Ein Farah, nel Wadi Qelt, splendida valle tra Gerusalemme e Gerico – continua Franchetti –. Lì l’accesso ai climber palestinesi residenti in Cisgiordania è impedito dal check-point della colonia che controlla il transito dei veicoli; l’ingresso è riservato ai cittadini israeliani (ebrei o arabi) tramite il pagamento di un biglietto di ingresso alla riserva naturale, all’interno della quale si trova la valle (vaste zone in Area C sono state dichiarate riserve naturali dal ministero dell’Ambiente israeliano). I palestinesi sono quindi costretti a un lungo trekking a piedi per raggiungere una parte della falesia, con il rischio di essere intercettati dalle guardie armate del parco e la possibilità di multe e guai legali… Di fronte a tale quadro, è stato pertanto naturale, per me e altri amici internazionali, cercare di fare qualcosa».
Nuove pareti e la prima palestra a Ramallah
Dario ha iniziato quindi a compiere dei trekking ed esplorare altre zone dei Territori occupati, individuando aree accessibili ai palestinesi che potevano essere chiodate in Area B (sotto controllo amministrativo palestinese e israeliano per la sicurezza) e sul confine tra Area B e C.
Parallelamente, due amici statunitensi, Tim Bruns e Will Harris, dopo una lunga fase preparatoria, nel 2014 hanno iniziato a costruire una palestra per arrampicata a Ramallah, la prima nei Territori.
Grazie poi all’attivazione di un piccolo progetto di raccolta fondi e all’invio da parte di un’azienda italiana (Montura) di corde, trapani, spit (chiodi o tasselli di ancoraggio per alpinisti – ndr) e altri materiali, Dario e i suoi amici hanno potuto cominciare a ripulire e attrezzare alcune falesie.
La nascita di una comunità di climber palestinesi
«Non appena abbiamo iniziato a chiodare», ricorda Dario, «si è manifestato l’interesse dei villaggi vicini e di ragazzi appartenenti alle comunità beduine. Dopo un’iniziale fase di studio (eravamo senza dubbio figure insolite nelle valli palestinesi!), si è stabilito un rapporto di fiducia. Alcuni giovani hanno provato ad arrampicare, e ogni fine settimana ci s’incontrava con loro per continuare».
Così è nato il progetto Wadi Climbing e, più in generale, si sono gettate le basi per una cultura locale di questo sport. «Abbiamo iniziato a organizzare escursioni all’aperto in cui ci siamo posti come guide e corsi di formazione per principianti. Lentamente si è attivata una vera e propria comunità, che negli anni si è resa autonoma», conclude Dario.
Nel 2019 è stata pubblicata, in inglese, anche la prima guida completa per l’arrampicata in Cisgiordania: Climbing Palestine: A guide to Rock Climbing in the West Bank (a cura di Tim Bruns, Benjamin Korff e Albert Moser, 2019).
Gli scambi con gli scalatori israeliani
Scontato chiedere se vi siano rapporti tra climber israeliani e palestinesi. Dario risponde che negli ultimi anni i contatti, pur nella difficoltà di accesso agli stessi siti, sono cresciuti, e cita l’esempio di alcune pareti attrezzate in parte da israeliani e in parte da palestinesi. Gli incontri avvengono principalmente nel caso di alcune falesie in Area C – ad esempio Wadi Mekmas – cui i palestinesi hanno accesso.
«Si tratta, per ciò che ho visto, di incontri per ora unicamente casuali e spontanei, focalizzati su una passione comune, che diventa fonte di confronto e consigli reciproci. In alcuni casi tali incontri hanno dato vita a legami poi consolidati», precisa. «In altri, invece, si assiste a una certa freddezza. Mi è capitato anche di trovare chi viene ad arrampicare con la pistola… Situazioni del genere creano evidentemente una distanza».
Lo scenario attuale
Oggi le falesie attrezzate nei Territori occupati sono ancora meno di una decina, ma a Ramallah e vicino a Betlemme sono state aperte nuove palestre da arrampicata; si organizzano corsi settimanali e uscite.
«Il nostro obiettivo era, semplicemente, facilitare l’arrampicata in Palestina. Se guardiamo indietro a quel che c’era prima (fino al 2012, non più di 20 persone avevano provato a scalare outdoor) e lo confrontiamo con l’oggi, siamo davvero molto contenti».
L’entusiasmo è tangibile anche nelle parole di Hiba Shaheen, presidente della Palestine Climbing Association, che abbiamo raggiunto al telefono nella sede a Ramallah.
«Grazie per aver spostato questa conversazione ad oggi pomeriggio», esordisce. «Stamattina ero impegnata ad arrampicare con un gruppo alla falesia di Yabrud, qui vicino a Ramallah». Una frase assai poco probabile solo pochi anni fa.
L’associazione è nata nel 2019 e conta una trentina di membri molto attivi, più un’altra ventina per alcune attività specifiche. Gli obiettivi sono ambiziosi: «Vogliamo far crescere l’arrampicata in Palestina – racconta Hiba – portandola ai livelli internazionali, e avere climber palestinesi che ci rappresentino alle Olimpiadi. Per far ciò, occorre che, oltre alle strutture, tra la popolazione vi sia anche una maggiore consapevolezza di questo sport e del fatto che sia sicuro. Lavoriamo quindi anche con i bambini e stiamo prendendo contatti con alcune scuole per organizzare corsi e campi estivi».
In aumento gli appassionati
Chiediamo a Hiba dove si trovino attualmente le aree per arrampicare in Palestina, oltre a quella del villaggio di Yabrud. Menziona il villaggio di Battir (vicino a Betlemme), quello di Ein Qinya (non lontano da Ramallah) e di Mukhmas (a nord est di Gerusalemme), la già ricordata valle di Ein Farah e la zona della città di Nablus.
Hiba aggiunge che alcuni legami (e inviti per scambi) internazionali si stanno intensificando. Cita ad esempio quello con alcuni gruppi in Colorado, e la partecipazione, iniziata quattro anni fa, di climber palestinesi a una competizione internazionale che si svolge ogni anno a marzo in Giordania. Tutti segnali che testimoniano di una passione che si sta senza dubbio diffondendo.