Il governo di Teheran, nei giorni scorsi, ha impedito con ogni mezzo che venisse ricordata pubblicamente la morte della giovane Mahsa Amini, che lo scorso hanno scatenò massicce e lunghe proteste in tutto il Paese. Gli attivisti si sentono sconfitti. E intanto il regime porta a casa una serie di successi in politica estera.
Le previste manifestazioni anti-regime in Iran, nel primo anniversario della morte di Mahsa Amini, sono sostanzialmente fallite. Certo, i pasdaran non avevano concesso spazi a chi aveva intenzione di scendere in piazza. Avevano chiuso i possibili canali di comunicazione, dai social media ai bar, arrestato preventivamente gli oppositori più in vista, intrappolato ai domiciliari il padre e i parenti stretti della ragazza curda, morta il 16 settembre 2022 – dopo essere stata catturata dalla polizia religiosa di Teheran perché non indossava correttamente il velo – e diventata il simbolo della lotta contro la grettezza del regime.
Nel Kurdistan e nelle altre regioni dove la questione del velo (hijab in arabo) si è intrecciata alle pulsioni indipendentiste, lo scorso 16 settembre le strade erano presidiate militarmente dai guardiani della Rivoluzione.
Insomma, stavolta il governo di Teheran non si è fatto cogliere di sorpresa, come avvenuto subito dopo la morte di Mahsa. Tuttavia le proteste dei giovani, che hanno infiammato per mesi l’Iran, si erano già indebolite prima dell’estate. «Diciamolo chiaramente: loro hanno vinto e noi abbiamo perso», spiega il ventiquattrenne Behzad, al Middle East Eye, un sito online che si definisce indipendente e che è diretto da un ex giornalista del quotidiano britannico The Guardian, David Hearst.
In un’inchiesta a vasto raggio, in diverse parti del Paese, il corrispondente del Middle East Eye raccoglie la frustrazione, la delusione, il senso di abbandono, la sfiducia verso la diaspora iraniana all’estero da parte dei ragazzi che parteciparono alla rivolta contro la teocrazia degli ayatollah.
Agli occhi di una parte dell’opposizione iraniana, l’ultimo tradimento è arrivato addirittura dagli Stati Uniti, la nazione mediaticamente e politicamente più impegnata a sostenere la nuova «rivoluzione». Proprio nei giorni del ricordo del martirio di Mahsa Amini, Washington, venendo meno alla sua politica di massime sanzioni, ha scongelato 6 miliardi di beni iraniani bloccati in Corea del Sud, per facilitare uno scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Iran, cinque detenuti da un lato e cinque dall’altro, avvenuto il 18 settembre. Ai sei miliardi di dollari, già trasferiti via Svizzera su un conto iraniano in Qatar, si sarebbero aggiunti, secondo alcune fonti, altre centinaia di milioni di dollari per compensare Teheran degli interessi non maturati. Un indubbio successo per i vertici iraniani, che hanno sempre denunciato come illegali i sequestri di fondi imposti dagli Usa. Sei miliardi di dollari sono una somma importante che non solo costituisce una boccata di ossigeno per un’economia in caduta libera (il rial, la valuta iraniana, ha ripreso subito quota) ma che rappresenta un precedente per puntare ad ottenere, attraverso trattative diplomatiche o metodi più spicci, come lo scambio di ostaggi, lo scongelamento e il ritorno in Iran di altri beni congelati come conseguenza delle sanzioni statunitensi, rinforzate nel 2018 dall’allora presidente Donald Trump dopo l’uscita unilaterale degli Usa dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano. In ballo ci sono 100-120 miliardi di dollari appartenenti alla Repubblica islamica.
Cosa abbia indotto l’amministrazione del presidente Joe Biden a tanta «generosità» per addolcire lo scambio di prigionieri non è ancora chiaro. La motivazione ufficiale è di tipo umanitario: ovvero l’imperativo di riportare a casa cittadini americani ostaggi innocenti di un Paese ostile. A sostegno di ciò, subito dopo lo scambio, Washington ha imposto nuove sanzioni verso l’ex presidente della Repubblica iraniana, Mahmud Ahmadinejad e il suo staff. Il messaggio è: non cambiamo atteggiamento. Secondo alcuni analisti, però, lo scongelamento di fondi bloccati potrebbe rappresentare un tassello di una trattativa più vasta e onnicomprensiva su temi come i droni iraniani forniti alla Russia in Ucraina e l’arricchimento senza più controlli dell’uranio nelle centrali iraniane, possibile preludio a una bomba atomica sciita.
Il presidente della Repubblica iraniana Ibrahim Raisi ha ostentato il suo ultimo successo negoziale, nella recente visita a New York, dove è intervenuto all’assemblea generale dell’Onu, ha avuto incontri con le delegazioni saudita e degli altri Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, ha intrattenuto colloqui con altri capi di Stato, ha tenuto una conferenza stampa in cui non ha mancato di ringraziare il Qatar e l’Oman per la loro mediazione nello scambio dei prigionieri, ed è stato persino invitato a parlare dagli analisti del prestigioso Council on Foreign Relations di New York.
Il 20 settembre è rientrato in patria, ma la delegazione iraniana, presieduta ora dal ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, rimarrà all’assemblea delle Nazioni Unite fino al 26 settembre, ed è probabile – ad avviso dei media statunitensi – che, a margine dei lavori dell’Onu, possano proseguire in maniera indiretta, o persino diretta, i contatti con i rappresentanti dell’amministrazione Biden.
Insomma, ad un anno dalla morte di Mahsa Amini e dall’inizio di una delle crisi più profonde che hanno scosso la Repubblica islamica dal 1979, il regime cerca di riprendere in mano i fili del gioco, soprattutto scongiurando un ulteriore isolamento internazionale. Negli ultimi mesi, l’Iran ha riallacciato i rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita, grazie all’intermediazione cinese, ha ottenuto l’adesione ai Brics, un raggruppamento geopolitico ed economico sempre più importante e alternativo al dominio del dollaro statunitense (di cui sono soci fondatori Cina, India, Russia, Brasile e Sudafrica), e ha fatto il suo ingresso nello Shanghai Cooperation Council, un organismo fondato nel 2001 dalla Cina e dalla Russia e che unisce Paesi euro-asiatici in materia economica, di sicurezza e di difesa.
Dunque hanno veramente «vinto loro»? Secondo la corrispondente di Al Jazeera a Teheran, Dorsa Jabbari, la rivolta ha cambiato forma ma non sostanza. Si è trasformata in disobbedienza civile, con un numero crescente di ragazze e signore che non indossano più il velo. «Donna, vita, libertà sono tre concetti ormai radicati nella società iraniana. Con le proteste degli scorsi mesi qualcosa si è rotto per sempre nei rapporti dei vertici con la popolazione, e non credo che si possa tornare indietro», afferma Dorsa Jabbari.
Il regime oscilla tra scelte contrapposte: da luglio è ritornata la polizia religiosa nelle strade del Paese, dopo essere stata rimossa durante la fase più intensa della rivolta. I poliziotti e le poliziotte – secondo le testimonianze dall’interno – si limitano per lo più tuttavia ad ammonire verbalmente, dalle camionette, le donne senza hijab, guardandosi bene dal mettere loro le mani addosso in pubblico, come avveniva in passato. Il parlamento iraniano (ma non ancora il massimo organismo di controllo legislativo, ossia il Consiglio dei Guardiani della Costituzione) ha approvato proprio in questi giorni una legge temporanea (della durata di tre anni) che inasprisce le multe e le pene per chi trasgredisce le norme islamiche di abbigliamento. Curiosamente non ha nel suo titolo la parola hijab, e riguarda prescrizioni per uomini e donne. Alcuni giornali iraniani l’hanno criticata come provocatoria e nello stesso tempo inapplicabile. Nel caso in cui passasse anche al vaglio dei Guardiani della Costituzione, può essere revocata comunque in qualsiasi momento. A dispetto dei progressi diplomatici all’estero, il regime sembra dunque muoversi ancora in maniera confusa per risolvere il trauma interno, alternando pragmatismo, minacce e repressione. Che la rivolta popolare contro il velo e il sistema islamico sia un incubo che continua ad assillare i vertici di Teheran, lo dimostra del resto la grande mobilitazione di polizia, di pasdaran e bulli in motocicletta per evitare che il 16 settembre 2023 potesse trasformarsi in un’occasione per riappiccare l’incendio delle battaglie per i diritti civili e i cambiamenti politici.