Da quasi un anno il Libano è senza un presidente della Repubblica, perché il parlamento non trova un accordo per eleggere il successore di Michel Aoun, l’ex generale cristiano maronita che ha terminato il suo mandato il 31 ottobre 2022. A settembre inoltrato non sembra che lo stallo politico possa trovare una soluzione. Il parlamento, che dal 1992 è presieduto dallo stesso politico, il musulmano sciita Nabih Berri, si è riunito per undici scrutini andati a vuoto. Poi, per sei mesi, le votazioni sono state sospese. Il 14 giugno si è tenuto un nuovo voto, anch’esso senza esito positivo: l’economista Jihad Azour ha raccolto l’appoggio di metà dei votanti (59 su 118), ma non abbastanza per raggiungere il quorum richiesto di due terzi. I rappresentanti di Hezbollah hanno quindi lasciato l’aula e non si è proceduto con le votazioni.
Anche il governo, guidato da Najib Mikati (musulmano sunnita) è ufficialmente dimissionario e resta in carica solo per gli affari correnti da quando è terminato il mandato di Aoun.
Non va meglio alla Banca centrale, per trent’anni guidata da Riad Salameh, e che da luglio ha un governatore provvisorio subentrato al dimissionario Salameh, accusato a livello internazionale di corruzione e riciclaggio di denaro. Alcuni Paesi hanno emesso contro di lui un mandato d’arresto, ma il Libano non ha concesso l’estradizione.
Emerge il quadro di una classe politica corrotta e inefficiente ai vertici di un Paese che da quattro anni vive una devastante crisi economica. C’è chi ha definito quella libanese una «policrisi» di cui l’impasse politico-istituzionale è solo un aspetto. Alcuni dati del collasso economico: inflazione al 250 per cento; debito pubblico al 180 per cento del Pil; dollarizzazione, perché la lira libanese è diventata carta straccia; prodotto interno lordo diminuito del 40 per cento da quando è iniziata la crisi.
Non sono bastate le grandi proteste popolari dell’autunno 2019 e l’esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020 (218 morti e il centro della città distrutto) per dare una scossa al Libano e al suo sistema di potere. Il Paese ha continuato a sprofondare nella crisi finanziaria, lasciando la popolazione sempre più impoverita.
I leader politici sono ancora i capi delle fazioni armate del conflitto civile (1975-1990). Mantengono un controllo saldo sui loro feudi elettorali, dove i politici vengono eletti sulla base di identità confessionali e di clientele.
Ma i giochi in Libano non si fanno solo in casa: sulla «scacchiera politica» si muovono le potenze straniere, alle quali le diverse fazioni fanno riferimento come loro protettrici: Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita e Iran, in particolare. Non è un caso che nell’arco di poche settimane, tra agosto e settembre, siano passati da Beirut l’inviato degli Stati Uniti Amos Hochstein, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian e Jean-Yves Le Drian, inviato del presidente francese Macron. Il primo intende rilanciare l’accordo sul confine marittimo tra Libano e Israele. Francia e Iran invece si sono scambiati accuse di essere all’origine dello stallo nell’elezione del presidente. Il capo dello Stato per consuetudine è un maronita, ma nemmeno i partiti cristiani sono concordi su un nome, perché alcuni sono alleati dei partiti sciiti, altri decisamente avversi.
Dato che politici sunniti e sciiti sono collocati in blocchi contrapposti, ci si potrebbe chiedere se il recente disgelo diplomatico tra Arabia Saudita e Iran non possa favorire, prima o poi, un accordo per il prossimo inquilino, cristiano, del palazzo presidenziale.
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