Figlia di sopravvissuti alla Shoah, attenta ai più fragili e garante della sicurezza nazionale, la presidente della Corte suprema israeliana si avvicina alla scadenza del mandato mentre procede la riforma giudiziaria voluta da Netanyahu che fa prevalere i poteri legislativo ed esecutivo su quello giudiziario.
Nel 2021 il quotidiano Haaretz l’ha inserita in uno speciale sulle «Cinque donne più influenti d’Israele». L’anno dopo è entrata nella classifica della rivista Forbes delle 50 donne ultracinquantenni leader nei loro Paesi. Da gennaio è diventata, per molti, la custode della democrazia nello Stato ebraico, la più implacabile oppositrice alla riforma della giustizia avanzata dal premier Benjamin Netanyahu. Esther Hayut, la presidente della Corte suprema israeliana, compirà 70 anni il prossimo 16 ottobre: un compleanno che, in base all’ordinamento israeliano, implicherà la fine del mandato sul più alto scranno della magistratura nello Stato ebraico. Per lei – componente della Corte suprema da un ventennio – una conclusione di carriera che avviene nella fase più drammatica dei rapporti tra politica e magistratura dal 1948 ad oggi.
Una vita degna di un film
La vita di Hayut potrebbe ispirare una trama di Hollywood. Nata nel 1953 in un quartiere popolare di Herzliya – un sobborgo settentrionale di Tel Aviv – da genitori rumeni sopravvissuti ad Auschwitz, Esther assistette al divorzio dei suoi quando era ancora una bambina: il padre emigrò in Gran Bretagna, la madre si risposò poco dopo e la piccola venne cresciuta dai nonni. Aver subìto questa esperienza – è stato detto di lei – l’ha resa una giudice severa e al tempo stesso un’avvocata sensibile alle cause dei più fragili. Dopo il diploma delle superiori prestò servizio militare dal 1971 al 1973, al termine del quale si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Tel Aviv, dove si laureò nel 1977 e dove conobbe il marito, David Hayut, col quale ha poi avuto due figli.
Nei primi anni di attività professionale ha lavorato in uno studio specializzato in diritto commerciale e responsabilità civile. Nel 1990 giunge la nomina a giudice del Tribunale di Tel Aviv-Jaffa; 14 anni dopo viene promossa alla Corte suprema, di cui diventa presidente nell’ottobre 2017. Con il giuramento promette di difendere la Corte da qualsiasi tentativo politicamente motivato di indebolirla.
Contro la riforma giudiziaria
Proprio questo è l’impegno che onora oggi. Ha suscitato scalpore, lo scorso gennaio, il discorso senza precedenti, per indignazione e appassionata eloquenza, con cui Esther Hayut ha definito la riforma della giustizia proposta da Netanyahu «un colpo mortale alla democrazia israeliana». Se passasse, avvertiva, le modifiche al sistema legale «minerebbero alle fondamenta l’indipendenza del potere giudiziario, conferendo a quello legislativo e a quello esecutivo un “assegno in bianco” per approvare qualsiasi legge, anche se violasse diritti civili fondamentali», e priverebbe i tribunali degli strumenti necessari per bilanciare eventuali derive autoritarie del governo.
Sentenze articolate e meticolose
Il ministro della Giustizia Yariv Levin e altri esponenti della maggioranza l’hanno accusata di esser espressione di una magistratura politicizzata e di violare il dovere di imparzialità dei giudici. Hayut ha tirato dritto. Del resto fanno scuola da decenni le sue sentenze articolate e meticolose, spesso corredate di citazioni di poeti e scrittori israeliani. E nessuno ha mai potuto mettere in dubbio il suo rigore nell’applicare le leggi o la lealtà allo Stato. Il suo impegno per i ceti più svantaggiati, con le sentenze sul diritto ai sussidi di vedove e orfani, sulle estensioni delle protezioni sociali ai lavoratori stranieri e l’autorizzazione ai palestinesi di ricongiungersi alle loro famiglie in Israele, le hanno fatto guadagnare la stima dei circoli progressisti. Per contro, in numerosi casi che riguardavano la sicurezza nazionale la giudice Hayut non ha esitato a ordinare la demolizione delle case di chi è stato condannato per terrorismo e a revocare l’immunità a un parlamentare arabo-israeliano che aveva elogiato Hezbollah, così che potesse essere processato per fiancheggiamento di un’organizzazione terroristica.
Salda al timone in un mare in tempesta
Negli ultimi sei anni la magistrata ha emanato una sentenza dopo l’altra, talvolta creando precedenti, su temi di ordinamento costituzionale e di governo. Ha bloccato un emendamento a una Legge fondamentale (una delle leggi primarie su argomenti specifici che in Israele suppliscono all’assenza di una Costituzione); ha bocciato e rispedito alla Knesset leggi ingiuste; non si è sottratta a scontri cortesi ma fermi con Netanyahu. Negli anni del Covid-19 Hayut ha garantito il diritto dei cittadini ad esprimere il dissenso per le strade, quando Netanyahu voleva imporre restrizioni e lockdown anche sulle proteste.
Se è diventata una delle donne più potenti di Israele, si è letto spesso negli editoriali di Haaretz, è proprio perché la sua leadership è tutto fuorché demagogica o rivoluzionaria. Hayut ama l’equilibrio e la moderazione. In una Corte suprema polifonica, dove ci sono giudici liberali in misura leggermente superiore a quelli conservatori, la presidente si erge non solo fisicamente al centro. Viene descritta «come il comandante di una nave in mezzo alla tempesta, che tiene saldamente il timone per mantenere la rotta».
L’elogio dell’Economist
L’ultimo omaggio è quello che il settimanale The Economist ha dedicato una settimana a lei e alla Procuratrice generale Gali Baharav-Miara. A poche settimane dalla scadenza del suo mandato, si legge, «sarebbe facile per Hayut lasciare questa patata bollente al successore». Al contrario, proprio perché è consapevole che molti israeliani considerano lei e la Corte suprema l’ultimo baluardo contro la deriva autoritaria intrapresa dal premier Netanyahu, si sta affrettando ad esaminare tutti i ricorsi formulati contro la riforma giudiziaria prima di andare in pensione.