Una squadra di pallacanestro interamente femminile nel bel mezzo del campo profughi palestinese di Shatila (o Chatila), a Beirut, tristemente noto per il massacro del settembre 1982. Vi giocano ragazze palestinesi, ma anche siriane e libanesi, dai 14 anni in su. Si allenano, due volte a settimana, all’interno del campo e in una zona vicina. Durante l’anno ospitano squadre di ragazze da altri Paesi, per imparare nuove modalità di gioco e scambiarsi tecniche e strategie. Quando possibile, partecipano anche a tornei all’estero (finora in Irlanda, Italia e Spagna con i Paesi Baschi).
In poche parole, sfidano con leggerezza muri reali e mentali che le vorrebbero confinate in determinati ruoli e nel loro lembo di città – oggi sempre più un quartiere ghetto – posto nella parte sud-occidentale della capitale libanese. Basket Beats Borders (Bbb, «Il basket vince le frontiere»), questo il nome della squadra e del progetto, è infatti uno spazio di libertà al femminile da quelle parti tutt’altro che scontato.
Superare i confini
«Attraverso Basket Beats Borders intendiamo offrire alle giovani della nostra comunità la speranza di una vita migliore», spiega al telefono da Shatila l’allenatore e co-fondatore Majdi Adam. È un profugo palestinese – tiene a precisarlo all’inizio della chiacchierata – e all’interno del campo è un punto di riferimento conosciuto da tutti. «L’obiettivo è aiutarle a superare le chiusure che affrontano qui in termini di costumi, tradizioni, confini tra Paesi».
Vivere a Shatila
Il campo di Shatila ospita attualmente più di 20mila persone in un chilometro quadrato. La maggior parte degli abitanti è palestinese e appartiene a famiglie che furono costrette a lasciare la loro terra e le loro case con la prima guerra arabo-israeliana del 1948, scoppiata subito dopo la nascita dello Stato di Israele.
Dopo lo scoppio del conflitto in Siria nel 2011, il campo ha visto – alla pari degli altri campi profughi palestinesi in Libano – un massiccio afflusso di rifugiati siriani. Il risultato è stato un ulteriore sovraffollamento e peggioramento delle già precarie condizioni di vita, come racconta Majdi: «Dalla creazione del campo, i residenti hanno sofferto a lungo, in particolare a causa dell’acqua spesso non potabile e delle interruzioni di elettricità. Gli edifici si sono sviluppati in altezza, con un disordine caotico. Negli ultimi anni, infine, un gran numero di bambini ha abbandonato la scuola, mentre gli adolescenti vedono ridursi ancora di più le prospettive di futuro. Rischiano di perdersi nella vita di strada, nella quale circolano anche fumo e droghe». In un contesto del genere lo sport può offrire un’alternativa dal profondo valore educativo.
Il legame con l’Italia
Basket Beats Borders è nato nel 2016, quasi per caso, grazie a un incontro tra Majdi e David Ruggini, attivista e cooperante italiano all’epoca al lavoro in Libano, con il supporto di un amico comune, Daniele Bonifazi.
«Nel 2016, mentre mi trovavo a Beirut – dice Ruggini al telefono da Roma – Majdi mi ha fatto da guida durante un giro a Shatila. Mi ha mostrato le condizioni di vita degli abitanti palestinesi e siriani e le attività sportive che portava avanti. Già dal 2010, infatti, aveva avviato un centro sportivo per ragazzi, chiamato Palestine Youth Club. Poi un giorno, quando è tornato – entusiasta – da un viaggio in Irlanda, il primo compiuto dalla squadra femminile di basket che allenava, mi si è accesa una lampadina. Mi sono detto: perché non portarli anche in Italia? Con Daniele Bonifazi ci siamo messi in contatto con alcune squadre di Roma, tra cui l’Atletico San Lorenzo, del quartiere San Lorenzo».
Un progetto collettivo
Detto fatto, il primo scambio è avvenuto a Roma nel 2017, grazie all’intermediazione del Servizio civile internazionale, che ha permesso di ottenere i visti necessari. Nel 2018 il secondo viaggio, quindi i successivi, realizzati con l’aiuto dell’associazione Un Ponte Per.
Lo scorso aprile, in occasione della fine del Ramadan e delle vacanze di Pasqua, è partita l’ultima delegazione, questa volta dall’Italia, composta dalle giovani giocatrici dell’Atletico San Lorenzo. «La cosa bella – commenta Ruggini – è che ormai le attività vengono organizzate in modo quasi autonomo. I coordinatori si conoscono di persona, le ragazze hanno mantenuto i contatti e stretto amicizia; ora si mettono d’accordo direttamente tra loro… Cresciuto poco alla volta, il progetto è diventato qualcosa di realmente collettivo».
Non solo basket
«Dato che ci sentiamo parte dell’intera comunità di Shatila, nel 2018, con altri, abbiamo deciso di aprire anche un centro sportivo per ragazzi e ragazze appartenenti alle diverse nazionalità presenti qui», aggiunge Majdi. Si chiama Shatila Community Center e attualmente è frequentato da un centinaio di giovani, dai 6 ai 18 anni. Gli allenamenti di Basket Beats Borders rientrano tra le sue attività.
Alle discipline sportive (basket, calcio, boxe) si accompagnano lezioni d’inglese e pittura, momenti di taglio culturale e ricreativo, oltre a campagne di sensibilizzazione mensili per le famiglie – e in particolare per le donne – su autoigiene, salute e sicurezza.
«Ci auguriamo», conclude Majdi, «che tutto questo possa costruire ponti di uguaglianza e rispetto tra i ragazzi di entrambi i sessi, guidandoli sulla strada giusta per realizzare le loro aspirazioni e i loro sogni. Lo sport può essere un potente antidoto alla violenza, alla discriminazione razziale e di genere, ed esercitare un ruolo importante nel migliorare i comportamenti. Ci aspettiamo crescerà una generazione più sana e una società migliore grazie alla pratica sportiva: per questo conta così tanto per noi».
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