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«Il quartiere armeno di Gerusalemme non è in vendita»

Cécile Lemoine
9 agosto 2023
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«Il quartiere armeno di Gerusalemme non è in vendita»
Una manifestazione della comunità armena nel cortile del convento di San Giacomo a Gerusalemme, maggio 2023. (foto Cécile Lemoine/TSM)

Hagop Djernazian è il leader della protesta degli armeni di Gerusalemme contro le scelte immobiliari fatte dal patriarcato. Scelte che possono mettere a rischio la secolare presenza cristiana nella città vecchia. Terresainte.net lo ha intervistato.


A 26 anni, Hagop Djernazian, studente in Relazioni internazionali all’Università ebraica di Gerusalemme, si è fatto portavoce della difesa del patrimonio e della presenza armena nella città vecchia, minacciata dall’affitto di diverse proprietà immobiliari a un uomo d’affari ebreo.

Dall’inizio di maggio la comunità armena di Gerusalemme si riunisce ogni venerdì per chiedere le dimissioni del suo patriarca. Cosa sta succedendo?
Il caso risale al 2021. All’epoca, fu firmato un contratto illegale da Nourhan Manougian, patriarca armeno di Gerusalemme, dal suo amministratore delle proprietà, l’ex padre Baret Yeretzian, e dall’arcivescovo Sevan Gharibian. Il documento autorizza l’affitto per 99 anni di un terreno armeno, chiamato «Giardino delle mucche», a un uomo d’affari ebreo australiano che progetta di costruirvi un hotel. Quest’area è gestita dal maggio 2021 dalla municipalità di Gerusalemme, come parcheggio, usato principalmente dagli ebrei che si recano al Muro occidentale. Recentemente si è appreso che erano coinvolte nell’operazione anche altre proprietà: case, il parcheggio privato del patriarca, il ristorante Bulghourji, un’ala del seminario…

>>> Leggi anche: Beni ecclesiastici, c’è maretta tra gli armeni di Gerusalemme

L’area interessata è enorme: si estende da un lato all’altro delle mura della città vecchia. Il 6 maggio il Patriarcato armeno ha annunciato che il suo Santo Sinodo (costituito da otto membri) ha ridotto allo stato laicale l’ex padre Baret per il suo coinvolgimento nella firma del contratto, che non era stato sottoposto né al voto del Sinodo, né a quello della Fraternità di San Giacomo. È stata la scintilla che ha acceso le polveri. Da due anni viene chiesto al patriarcato di rendere conto del suo operato, ma finora nessuna risposta. Sembra che sia sufficiente punire un prete, fra i tre responsabili, e lasciarlo andare via senza una spiegazione. Padre Baret è un facile capro espiatorio, ma nessuno si lascia ingannare.
Il re di Giordania (Abdallah II – ndr) e il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che hanno chiesto i dettagli dei contratti e la loro cancellazione, hanno annunciato l’11 maggio di non riconoscere più Nourhan Manougian come patriarca della Chiesa armena ortodossa di Gerusalemme e del resto della Terra santa. È un fatto storico. Al patriarcato ci è stato detto di aspettare, di essere pazienti e lasciare che facciano il loro lavoro. Abbiamo aspettato abbastanza: come comunità chiediamo informazioni precise sui beni venduti, il ritiro della firma del patriarca e le sue dimissioni.

In verde il quartiere armeno della città vecchia, in rosso la parte affittata per 99 anni a un consorzio australiano. (elaborazione TerreSainteMag)

Perché queste proprietà sono così importanti per la comunità armena di Gerusalemme?
Il «Giardino delle mucche», Goveroun bardez, appartiene agli armeni di Gerusalemme da 1.300 anni. Questo terreno è al centro del nostro quartiere. Accoglieva pellegrini, i profughi del terremoto del 1927. Prima di essere trasformato in un parcheggio, era un luogo di vita e di incontro. Se avverrà, la sua trasformazione in hotel rappresenterà una grave perdita per il patrimonio armeno della Città Santa: il quartiere verrebbe ridotto del 25 per cento!
La vita quotidiana sarà stravolta. Le generazioni future avranno meno spazio per stabilirsi lì. Sono in gioco il carattere e la demografia del quartiere armeno, così come la presenza cristiana nella città vecchia. Anche se i quartieri cristiano e armeno formano due entità separate sulle mappe, sono uniti dalla stessa religione. Dobbiamo mantenerlo così.

Lei è tra coloro che guidano il movimento di protesta contro il patriarca. Che cosa la spinge?
Sono a Gerusalemme un figlio della quarta generazione di sopravvissuti al genocidio del 1915. I nostri genitori hanno insegnato a me e ai miei fratelli a rimanere fedeli alle nostre radici armene. Sono cresciuto dietro le mura del quartiere, ma non sono andato a scuola qui. I nostri genitori hanno preferito iscriverci a una scuola ebraica, per farci uscire dalla città vecchia e metterci in contatto con un mondo diverso. Abbiamo ricevuto un’educazione ebraica in ebraico, ma ho preso lezioni private in armeno e sono sempre stato coinvolto nella vita della comunità.

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Faccio parte del consiglio di diversi club, sindacati e associazioni di armeni. Nelle ultime settimane è stato un impegno quasi quotidiano. Salto persino le lezioni all’università per parlare con gli avvocati e preparare la nostra difesa per recuperare la proprietà. Il quartiere armeno è la mia casa. Un luogo che contiene tutto: la scuola, il convento, la chiesa, la libreria, il museo, i locali e soprattutto le persone. Viviamo in una piccola Armenia. La nostra presenza risale al IV secolo. È un patrimonio che mi sembra più che necessario difendere.

Hagop Djernazian. (foto Cécile Lemoine)

Vede questo impegno come un dovere?
Sì, è nostro dovere come armeni proteggere le nostre terre. Non solo a Gerusalemme. Queste terre appartengono al popolo, alla nazione armena. Abbiamo combattuto per loro, abbiamo pagato dei soldi. Quindi non sono in vendita. Devono servire la comunità. Dobbiamo proteggerli.

Perché sono i giovani a guidare questo movimento di protesta?
Perché vogliamo continuare a vivere qui, proteggere i nostri diritti e costruire il nostro futuro. Se non combattiamo noi questa battaglia, chi lo farà? Possiamo vedere che i nostri anziani non hanno la stessa motivazione, non investono tanto… Nel patriarcato, vedono negativamente le nostre piccole manifestazioni pacifiche. Hanno emesso l’ordine di non farmi mettere l’auto nel parcheggio. Immagino che si sentano minacciati…

Ha l’impressione che gli armeni possano scomparire da Gerusalemme?
Sì. Se non riusciamo a rescindere questo contratto, i nostri numeri continueranno a diminuire, perché le persone non si sentiranno incoraggiate a restare. La scuola chiuderà, il centro comunitario non sarà più attivo… È un circolo vizioso. Ma andarsene non è una risposta, devi combattere. Perché oltre agli armeni, è la presenza cristiana a Gerusalemme ad essere in gioco e sotto pressione.

Il parcheggio oggetto della transazione. La società che è diventata affittuaria ha affisso un cartello che indica che ora è un parcheggio privato, accessibile solo ai soci. (foto MAB/TSM)

I patriarchi sono anche i primi a comunicare sull’argomento…
Eppure, sono i primi a incoraggiarlo! Questo è ciò che rende queste locazioni così incomprensibili per noi che siamo nati qui. I nostri leader vengono dall’Armenia, dal Libano, dalla Turchia. Arrivano a Gerusalemme per i loro studi. Diventano sacerdoti, vescovi e perfino patriarchi. Ma nessuno ha le sue radici qui. Non conoscono la situazione politica ed economica. Non capiscono cosa c’è in gioco, non sono interessati a quello che stiamo passando.
Di conseguenza, fanno scelte senza prendere in considerazione il contesto. E arriviamo al pasticcio attuale. Abbiamo bisogno di buoni leader per garantire la permanenza dei cristiani qui. Non è con le nostre parate di scout che ci rendiamo utili. Dimostriamo che ci siamo, ma non salviamo nulla. Loro invece hanno l’influenza per agire, il potere di incoraggiare i giovani a rimanere creando opportunità.
Molti giovani non si sposano perché non hanno un posto dove vivere. Se gli armeni avessero un progetto di costruzione nella città vecchia, manterrebbero in vita la comunità. La Chiesa ci tiene uniti. Ma servono anche altri due elementi: la scuola e il centro comunitario. Un po’ come una trinità: se perdi uno dei tre, non funziona più. Dobbiamo mantenere i tre elementi forti, uniti.

Quali sono i prossimi passi?
Continueremo a incontrarci settimanalmente in modo pacifico. Stiamo anche lavorando per coinvolgere gli avvocati per avviare un procedimento legale. Penso che dobbiamo unirci alle altre comunità cristiane attorno a una campagna comune: l’ultima battaglia per proteggere la presenza cristiana a Gerusalemme. Questa è la terra dove Gesù è nato ed è stato crocifisso. I cristiani devono restare fedeli alle proprie radici, difenderle. Essere un cristiano armeno inizia qui.


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