I recenti accordi tra Unione europea e Tunisia hanno posto nuovamente sul tappeto l'eterna questione: fino a che punto si può scendere a patti con quei regimi che non condividono i nostri stessi valori e non rispettano i nostri stessi principi?
Non è andato certo esente da critiche il Memorandum d’intesa firmato in luglio, a Tunisi, dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, dalla premier italiana Giorgia Meloni e dal primo ministro olandese Mark Rutte con il presidente tunisino Kais Saied. L’accordo prevede che la Ue versi alla Tunisia un miliardo di euro, oltre a supporto tecnico, per le politiche di contenimento dei flussi migratori. La Germania e altri Paesi Ue hanno protestato per essere stati tenuti fuori dal negoziato decisivo, i servizi diplomatici mugugnano per non essere stati coinvolti. Ma soprattutto si sono inalberate le organizzazioni umanitarie. Una per tutte, Amnesty International, che dell’accordo ha detto: «Manca delle necessarie garanzie di protezione dei diritti umani».
In effetti il comportamento della Tunisia nei confronti dei migranti che cercano di arrivare al Mediterraneo dall’Africa sub-sahariana è stato ed è, a dir poco, spietato. Il via libera politico l’ha dato lo stesso presidente Saied, che ha dichiarato: «Sin dall’inizio del secolo è in atto un piano criminale per cambiare la struttura demografica della Tunisia e ci sono gruppi che hanno ricevuto grandi somme di denaro dopo il 2011 per far insediare nel Paese i migranti illegali dell’Africa sub-sahariana». Così ci sono state retate e scontri a Sfax, centinaia di migranti sono stati respinti oltre il confine con la Libia, molti altri sono accampati in condizioni disumane nella zona militarizzata.
L’Europa ha sempre una gran paura dei migranti e quindi la questione è stata rapidamente accantonata. Però Amnesty e le altre organizzazioni, al di là della primaria e più urgente preoccupazione umanitaria, sollevano un problema che l’Occidente politico non solo non ha saputo, ma in realtà non ha mai voluto nemmeno affrontare. Come e quando si patteggia con quei regimi che non condividono i nostri stessi valori e non rispettano i nostri stessi principi? Sul fatto che si patteggi, e spesso, non c’è discussione. Per restare alle questioni migratorie: nel 2016, la Ue della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese François Hollande, intimorita dai flussi di profughi siriani, strinse un accordo economico con il presidente Recep Tayyip Erdogan affinché la Turchia intercettasse e trattenesse quei profughi prima che raggiungessero il territorio Ue. Lo stesso Erdogan e la stessa Turchia che l’Ue non vuole nei suoi ranghi proprio per problemi legati alle pratiche democratiche e ai diritti umani. E l’Italia, nel 2017, ha firmato con la Libia, sempre per bloccare i migranti, quel Memorandum che è stato più avanti definito «il memorandum della vergogna».
E questi sono solo due casi specifici. Pensiamo alle decine di regimi africani e mediorientali con cui ogni giorno scendiamo a patti per procurarci materia prime e metalli rari. Pensiamo all’import-export con la Cina, accusata di non rispettare la democrazia e di reprimere i tibetani, gli uiguri, gli abitanti di Hong Kong. All’Azerbaigian – non tenero con i dissidenti – diventato con le sanzioni contro la Russia, il primo fornitore di gas dell’Italia e uno dei primi per l’Europa intera. Dov’è il confine? Qual è il limite che ci siamo dati? Qual è l’elemento discriminante che ci fa decidere: con questo parlo e con quell’altro no? Il benessere dei nostri cittadini, quindi la convenienza economica? Non sempre. Il caso della Russia dimostra che possiamo scegliere di perdere denaro in nome di scelte di principio. Mentre il caso dell’Egitto, con lo scandalo Regeni e i 60 mila prigionieri politici chiusi nelle sue carceri, dice l’esatto contrario. La sicurezza? Anche qui, non sempre: intratteniamo cordiali rapporti, per esempio, con l’Arabia Saudita, per decenni grande finanziatrice dei movimenti islamisti più radicali e violenti. Con quante dittature latino-americane abbiamo rotto le relazioni, negli anni peggiori della repressione militare?
Si potrebbe continuare a lungo, anzi all’infinito. D’altra parte, la maggior parte dei 193 Paesi che siedono alle Nazioni Unite non può a rigore essere definita democratica. È anche un dilemma difficile da affrontare, se diamo per scontato che il compito primario di un qualunque governo sia garantire al proprio popolo le migliori condizioni di vita possibili. Tocca alla politica. E ai cittadini controllarla.