Lunedì 24 luglio il parlamento israeliano ha dato il via libera alla prima parte della riforma giudiziaria voluta dal governo Netanyahu, che limita di fatto i poteri della Corte suprema. L’esecutivo canta vittoria. Gli oppositori denunciano il rischio di un indebolimento dello Stato di diritto e della democrazia.
Il giorno dopo l’approvazione alla Knesset della prima fase della riforma giudiziaria elaborata dal governo di Benjamin Netanyahu, il 24 luglio scorso, il quotidiano liberal Haaretz e altri quotidiani israeliani (il popolare tabloid Yediot Ahronot, il supplemento economico Calcalist e Israel ha-Yom, un freepress indipendente, ma vicino alle posizioni del governo) sono usciti con una prima pagina totalmente in nero su cui campeggiava la scritta: «Un giorno nero per la democrazia israeliana». Si è trattato di un annuncio a pagamento promosso da Protesta hi-tech, un pool di aziende impegnate nella ricerca tecnologica. «L’hi-tech – sostengono gli inserzionisti – non può prosperare senza una democrazia stabile. Dove non c’è democrazia, non c’è economia e non c’è hi-tech».
Le proteste contro la riforma giudiziaria voluta dal governo Netanyahu agitano il Paese da molti mesi. E il movimento sembra crescere d’intensità man mano che procede l’iter parlamentare. In gioco c’è la terzietà della Corte suprema di giustizia; in sostanza, una limitazione dei poteri previsti dalla cosiddetta «clausola di ragionevolezza»: i giudici possono esercitare, fino a poter annullare, quando confliggono i principi giuridici, provvedimenti e nomine decisi dal governo o da ministri.
Il ministro della Giustizia Yariv Levin ha dichiarato, all’indomani del via libera della Knesset: «La ragionevolezza è una questione di visione del mondo, e non giudiziaria. Noi oggi riaggiustiamo gli equilibri fra i poteri dello Stato, ripariamo ingiustizie accumulatesi negli anni, rispettiamo il volere degli elettori, rafforziamo la democrazia».
Il ventaglio degli oppositori
Le reazioni non si sono fatte attendere. Oltre alle proteste nelle strade delle varie città e scioperi in vari settori, diverse petizioni contro la legge appena approvata hanno raggiunto la Corte suprema. Tra queste, anche un esposto dell’Associazione degli avvocati israeliani, che vede nella riforma un indebolimento dello Stato di diritto e una minaccia alla separazione dei poteri in Israele.
Anche esponenti dell’esercito e delle forze di sicurezza si sono schierati contro la riforma. L’ex capo dell’intelligence Amos Malka ha dichiarato: «Se in questi giorni prestassi servizio come comandante di Stato maggiore, chiederei di ritirarmi immediatamente! Un minuto dopo il mio ritiro salirei su ogni palco e spiegherei perché non è possibile per me servire un regime che si è trasformato in una dittatura messianica che si sforza di conquistare le persone invece di ascoltare le loro difficoltà e lavorare per la concordia nazionale». Anche tra le fila dei riservisti, la vera forza dell’esercito d’Israele, serpeggia il malcontento. In 10mila sarebbero pronti a non servire più il Paese. La radio militare fa sapere che la protesta coinvolge anche i top gun dell’aviazione militare.
Insomma, Israele sembra giunto a un bivio pericoloso se l’ex primo ministro Ehud Olmert si è spinto a parlare di «rischio di guerra civile», commentando la disobbedienza civile di massa contro un esecutivo «percepito da una gran parte della popolazione come illegittimo». Una crisi senza precedenti che, secondo alcuni commentatori, mina le fondamenta della democrazia israeliana e nasconde al suo interno la vera minaccia, quella di una spaccatura insanabile nel corpo sociale, che rischia di implodere.
In discussione la solidarietà nazionale
Lo ha spiegato in maniera chiara Herb Keinon, in un circostanziato articolo apparso su The Jerusalem Post il 21 luglio scorso, alla vigilia delle votazioni alla Knesset: sta venendo meno quello che, fin qui, è stato «l’ingrediente fondamentale per la sopravvivenza e il successo di Israele: la solidarietà nazionale e la coesione». Una solidarietà nazionale che ha permesso al Paese di affrontare e sopravvivere a crisi e guerre impari. Una coesione che si è manifestata nella politica, anche tra opposti schieramenti, per contrastare terrorismo e attacchi esterni.
«La capacità di questo Paese, nonostante le sue innumerevoli differenze, di unirsi in tempo di crisi per respingere un nemico è leggendaria – argomenta Keinon –. Lo abbiamo visto due settimane fa, durante la campagna di due giorni a Jenin e, quasi due mesi prima, durante l’operazione contro la Jihad islamica palestinese a Gaza. Ma questo è tutto vero quando si affronta un nemico esterno, una sfida esterna».
Già, ma che succede se si ha a che fare invece con una sfida interna, come in questo caso?
Keinon mette il dito nella piaga e indica gli esiti devastanti e le vere ricadute sociali che, se non si lavora per la riconciliazione nazionale, la riforma della giustizia potrebbe avere: «Unità di intenti, destino condiviso, senso di responsabilità reciproca e disponibilità dei singoli all’impegno e al sacrificio per il bene comune costituiscono la solidarietà e la coesione nazionale. L’unità di intenti comporta che valori e aspirazioni siano orientate verso un obiettivo comune e le persone siano disposte a mettere da parte interessi individuali per il bene comune. Ma questo oggi non è più chiaro, poiché il dibattito sulla riforma giudiziaria ha messo a nudo le differenti visioni su quale sia o dovrebbe essere esattamente l’obiettivo comune di Israele».
Quale potrebbe essere in futuro l’idea di «destino condiviso»?
«La riforma giudiziaria – osserva Keinon – ha portato sempre più persone a sentirsi estranee a questo Paese. Questo sentimento stesso è corrosivo per la solidarietà e la coesione nazionale».
Da ultimo, c’è l’idea della responsabilità reciproca e della volontà di sacrificarsi per il bene comune. «Questo convincimento è stato a lungo uno dei maggiori punti di forza di Israele: la disponibilità delle persone a sacrificarsi l’una per l’altra nel perseguimento dell’obiettivo comune e per un destino condiviso».
Oggi, a guardare le piazze ricolme di manifestanti e il dibattito pubblico, questo sentimento sembra essersi smarrito. Per questa ragione il presidente Isaak Herzog, anche durante il recente discorso al Congresso degli Stati Uniti (mentre le piazze ribollivano e la polizia disperdeva le folle con gli idranti) non ha risparmiato gli appelli al dialogo e si è detto fiducioso nella capacità di ricomporre la crisi: «Il dibattito in Israele è doloroso e profondamente snervante, perché evidenzia le crepe interne – ha detto – . Tuttavia, ho grande fiducia nella democrazia israeliana, che è forte e resiliente». Resta da capire se il governo e le opposizioni vorranno impegnarsi per ritrovare la coesione sociale o se vorranno continuare a giocare con il fuoco.