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Carcerati palestinesi, il dossier dimenticato

Paola Caridi
18 luglio 2023
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Carcerati palestinesi, il dossier dimenticato
Detenuti musulmani nel carcere di Ayalon (Israele centrale) durante la preghiera del venerdì. (foto Nati Shohat /Flash90)

Nelle prigioni israeliane sono rinchiusi moltissimi palestinesi in regime di detenzione preventiva, senza processo, sottoposti alla legge militare. Una prassi che si propone di combattere il terrorismo, ma che contribuisce a rendere ancora più incolmabile il fossato d’odio.


La prigione può essere infinita. Non è detto che un detenuto riesca a uscire dal carcere, persino dopo la sua morte. Persino come corpo privo di vita. Succede in Israele e Palestina, per il dossier più invisibile tra i tanti aperti in quel lembo di terra. È il dossier dei prigionieri palestinesi, circa cinquemila secondo le ultime statistiche di giugno 2023.

A riportare in superficie negli ultimi mesi il «dossier dimenticato» è la morte di Khader Adnan, un esponente del Jihad islamico della zona di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale. Adnan, 45 anni di cui almeno otto passati nelle carceri israeliane, è morto il 2 maggio scorso dopo quasi tre mesi di sciopero della fame. Per la precisione 86 giorni di privazione volontaria del cibo per protestare contro l’ennesimo arresto e detenzione preventiva. Nessuna accusa circostanziata depositata contro di lui, che aveva già subito altri periodi di carcerazione preventiva, e che proprio per questo aveva già usato lo strumento dello sciopero della fame.

Nelle sue condizioni ci sono, a oggi, oltre mille detenuti in carcerazione preventiva, oltre il doppio rispetto alle statistiche di due anni fa. E non si tratta di numeri, ma di un vero e proprio cambio nella politica israeliana, se è vero che i prigionieri in attesa di un’accusa circostanziata rappresentano un quinto dell’intera popolazione carceraria palestinese. Cosa significa, essere in carcerazione preventiva? Rimanere in cella sine die, all’infinito. Non si tratta degli oltre cinquecento palestinesi che sono stati condannati all’ergastolo. Al contrario: quei mille palestinesi in detenzione preventiva non hanno ancora subito alcun processo.

I palestinesi, soprattutto quelli in Cisgiordania, sono soggetti a un sistema giudiziario militare. E se vengono arrestati e incarcerati per un periodo massimo di sei mesi senza saperne il motivo, la loro carcerazione può essere rinnovata più e più volte. Il processo di Oslo, la creazione dell’Autorità nazionale palestina, un simulacro di governo e istituzioni a Ramallah e nelle principali città palestinesi non hanno risolto nulla, da questo punto di vista. In più, la salita al potere – nella coalizione guidata da Benjamin Netanyahu – della destra suprematista di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir non ha fatto altro che accentuare un problema già presente da decenni. E cioè la compresenza dell’occupazione militare con un potere, quello dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di Mahmoud Abbas, che di fatto non riesce ad avere il controllo della terra e della popolazione palestinese.

Un esempio lampante, descritto da uno degli studiosi di diritto che più si occupa di quello che succede nel Territorio occupato palestinese, Luigi Daniele, è la doppia giurisdizione per palestinesi e israeliani. Le corti militari si occupano, scrive Luigi Daniele, «di applicare la legislazione militare verso i palestinesi, mentre le corti civili israeliane applicano la legge nazionale agli israeliani e ai coloni, a prescindere da quale tipo di reato sia stato commesso nel Territorio occupato palestinese». La questione delle prigioni va al cuore del conflitto. Per i palestinesi, i detenuti sono prigionieri politici. Gli israeliani, dal canto loro, non riconoscono la qualifica di prigionieri politici. Per le autorità israeliane i palestinesi, compresi i 160 minori ora in carcere, sono attivisti o terroristi, sottoposti a una giurisdizione militare e non civile. Sono detenuti «di sicurezza». Per la società palestinese, invece, il carcere è diventato – dal 1967 in poi – una esperienza che colpisce quasi la metà della popolazione di sesso maschile. Significa, nella sostanza, che oltre ottocentomila ragazzi e uomini palestinesi sono passati dal carcere o dal centro interrogatori. Anche per aver tirato una pietra, oppure per un documento considerato non in regola, o per una risposta a un soldato in uno dei check-point che disseminano la Cisgiordania e Gerusalemme est.

E così Khader Adnan era divenuto, in questi anni, un simbolo, dentro e oltre i confini di Israele/Palestina. Non deve sorprendere, dunque, che la sua morte sia stata un caso globale, e che si riverberi nei social l’accusa di negligenza contro le autorità israeliane. Khader Adnan si poteva salvare, questa è l’idea che circola, se le autorità lo avessero rilasciato, come già era successo con altri prigionieri che si erano opposti alla detenzione preventiva attuando lo sciopero della fame. Una pratica, questa del digiuno volontario, che lo stesso Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) qualifica come «una forma di protesta» e sulle cui ragioni o scelte «non esprime un giudizio». Con la morte dell’esponente del Jihad islamico, però, i riflettori non si sono spenti. Perché la morte, appunto, non ha aperto i cancelli del carcere, per Khader Adnan.

Neanche dopo il periodo del lutto, che per le regole islamiche dura quaranta giorni, la salma è stata consegnata alla famiglia, nonostante l’esplicita, pubblica, immediata richiesta del Comitato internazionale della Croce Rossa, che per l’arcipelago carcerario dei palestinesi significa da oltre 55 anni l’unico rapporto tra il detenuto e il mondo oltre le mura degli istituti penitenziari. Lo scarno comunicato della Croce Rossa chiedeva «alle autorità israeliane di riconsegnare il corpo del signor Adnan, cosicché la sua famiglia possa osservare il lutto e organizzare una sepoltura degna secondo i loro costumi e credenze».

Il caso Khader Adnan ha sollevato il coperchio su una storia ancor più invisibile e nascosta. La questione dei corpi, delle salme dei palestinesi. Sia di quelli morti durante la detenzione, sia di quelli morti di morte violenta: coloro che hanno compiuto attentati suicidi, per esempio. Oppure coloro che sono stati uccisi dall’esercito israeliano, perché militanti delle fazioni armate, perché stavano tirando pietre, perché sospettati di voler compiere un attacco. Oltre Adnan, per esempio, altre undici salme di detenuti morti in carcere debbono essere ancora riconsegnate alle famiglie. E gli altri? È una storia complicata, e molto lunga. Lunga tanto quanto le guerre che dal 1948 in poi hanno segnato la terra di Israele/Palestina. Si parla di centinaia di salme. Di corpi che sono stati sepolti in quelli che i palestinesi chiamano i «cimiteri dei numeri», situati nel nord di Israele e nella Valle del Giordano. I «numeri» sono quelli posti sopra i cumuli di terra: nessun nome, solo una targa di metallo con un numero. Una pratica che si è fermata solo quando i rapporti delle associazioni per i diritti umani israeliane e palestinesi hanno investito della questione i tribunali e la Corte suprema israeliana, che a più riprese ha emesso sentenze (seppur non risolutive).

Lungi dall’essersi risolta, appunto, la questione dei corpi sepolti o congelati negli obitori ha visto alti e bassi, negli ultimi trent’anni, soprattutto durante la seconda intifada e, tra il 2015 e il 2016, una fiammata di violenza fra entrambe le parti. I corpi defunti sono allora divenuti una moneta di scambio, sia quelli palestinesi detenuti da Israele, sia per esempio quelli che Hamas detiene in attesa di un negoziato per uno scambio di cui si vocifera da anni, a corrente alternata. D’altro canto, la macabra moneta di scambio ha fatto parte di tutte le guerre, comprese le guerre tra Israele e i suoi vicini. L’ultimo scambio di corpi con Hezbollah è avvenuto nel 2004, tanto per fare uno solo dei tanti esempi possibili. Per i palestinesi, però, la mancata riconsegna delle salme viene interpretata come l’espressione reale di quella che lo storico e teorico camerunense Achille Mbembe definisce «necropolitica», e cioè «l’espressione ulti ma della sovranità» che «risiede nel potere e nella capacità di imporre chi deve vivere e chi morire».

A Israele potenza occupante viene rimproverato, tra l’altro, il doppio standard. Ferma restando la condanna per gli atti di terrorismo e di violenza di cui si sono macchiati alcuni (non tutti) i palestinesi morti, il corpo del defunto non può essere considerato moneta di scambio, e gli va riconosciuta dignità. Come quella riconosciuta, per esempio, a Baruch Goldstein. La tomba è ancora lì, nella colonia israeliana di Kiryat Arba, mèta di pellegrinaggio della destra estrema. Nonostante Goldstein, colono e radicale, si fosse macchiato di un atto di terrorismo, uccidendo 29 palestinesi fedeli musulmani riuniti nella moschea di Hebron per la preghiera dell’alba durante il Ramadan del 1994. Nonostante questo, le sentenze da parte della giustizia israeliana non hanno mai proibito la costruzione di una tomba e di una lapide. Alla salma, al corpo morto va riconosciuta la dignità. Ai parenti, la necessità del lutto. Altrimenti – sostengono le associazioni per i diritti umani che si occupano dei prigionieri – questa pratica diviene una punizione collettiva, contraria a tutte le convenzioni internazionali.

Terrasanta 4/2023
Luglio-Agosto 2023

Terrasanta 4/2023

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Un viaggio di fine giugno 2023 in Siria, e in particolare ad Aleppo, dà origine a questo reportage pubblicato nelle 16 pagine centrali del Dossier di Terrasanta in questo numero di luglio-agosto 2023.

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