Il 28 giugno scorso un rifugiato iracheno di 37 anni ha bruciato una copia del Corano davanti alla moschea di Medborgarplatsen nel cuore di Stoccolma (Svezia). Il gesto ha avuto ripercussioni internazionali, anche all'Onu.
Il caso ha avuto ampio risalto sui media: un rifugiato iracheno di 37 anni, Salwan Momika, il 28 giugno 2023 ha bruciato una copia del Corano davanti alla moschea di Medborgarplatsen, nel cuore di Stoccolma, nel primo giorno dell’Eid al-Adha, una delle feste più sentite dai musulmani. Il tutto dopo che la Corte d’appello svedese aveva rimosso il divieto, decretato dalle forze dell’ordine, di compiere gesti di quel genere. E infatti a Momika non è stata fatta nemmeno una multa. Se n’è parlato, dicevamo, ma soprattutto per gli echi in Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan, allora, non aveva ancora pattuito il via libera all’ingresso della Svezia nella Nato e quindi si era lanciato in un’intemerata delle sue, definendo «inammissibile» e «atroce» il gesto dell’iracheno.
Si è parlato poco, invece, di quel che è successo dopo alle Nazioni Unite. Il Pakistan si è fatto capofila di un gruppo di Paesi islamici e ha presentato al Consiglio Onu per i diritti umani una risoluzione di condanna del gesto quale «incitamento all’odio religioso». La risoluzione è passata, il 12 luglio 2023, ma in modo tutt’altro che trionfale: 28 voti a favore, 12 contro e 7 astensioni. Tra coloro che hanno votato a favore, Argentina, China, Cuba, India, Sud Africa, Ucraina e Vietnam. Tra i contrari, Regno Unito, Usa, Francia, Germania, altri Paesi europei, Montenegro e Costa Rica. La motivazione: il timore che la condanna del piccolo rogo organizzato da Momika potesse tramutarsi in una limitazione della libertà di pensiero e di parola. Khalil Hashmi, ambasciatore all’Onu del Pakistan, non l’ha presa bene. Ha detto che «purtroppo alcuni Stati hanno scelto di abdicare alla responsabilità di prevenire e combattere la piaga dell’odio religioso. Miliardi di fedeli in tutto il mondo hanno potuto vedere che il loro impegno a combattere l’odio religioso è fatto solo di parole». I rappresentanti dei Paesi che hanno votato contro la risoluzione in generale hanno risposto dicendo che il testo era stato preparato troppo in fretta e destava timori proprio sul tema della libertà d’espressione. E che se si fosse lavorato di più e meglio sul testo, accogliendo magari alcune delle osservazioni dei Paesi perplessi, si sarebbe potuti arrivare a un voto unanime.
Il dibattito quindi è aperto: bruciare un Corano o una Bibbia (ebraica o cristiana), gesto che oggettivamente va un po’ oltre la semplice critica, è un atto di libera espressione o di disprezzo? Francisca Mendez Escobar, l’ambasciatrice del Messico, ha detto: «Non tutte le critiche a una religione sono necessariamente un incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza». Le critiche certo che no. Ma il rogo? E che dire della Cina? Ha votato a favore, e il suo ambasciatore, Chen Xu, ha detto: «L’islamofobia è in aumento. Gli eventi che prevedono il disprezzo del Corano si moltiplicano in alcuni Paesi, che non fanno nulla per concretizzare il tanto proclamato rispetto per la libertà religiosa». Bellissime parole, anche se non pare che la Cina sia il paradiso della libertà di espressione, religiosa o no.
La questione è complessa e non può certo essere risolta qui in poche parole. Provo però ad avanzare un ricordo personale. Sono stato molte volte a Baghdad e per un certo numero di anni sono capitato a quello che allora si chiamava Hotel Al Rasheed. Fin dai tempi di Saddam Hussein, per entrare nella hall bisognava passare su un mosaico (installato nel 1991 e rimosso nel 2008) che raffigurava il presidente americano George Bush, calpestandone il volto in effige. Un chiaro segno di disprezzo. Si può paragonare a un rogo?