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Due lingue per capirsi

Giulia Ceccutti
1 giugno 2023
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Due lingue per capirsi
Un confronto a tre in una scuola di Hand in Hand, in Israele. (foto Hand in Hand)

Non sono molte le scuole che in Israele adottano il bilinguismo e insegnano arabo ed ebraico ai loro allievi, per un modo diverso di stare insieme. Le esperienze di Neve Shalom Wahat al Salam e di Hand in Hand.


Un edificio basso, colorato e allegro. Le pareti in legno, dipinte in parte di giallo e azzurro. È il nuovo Centro linguistico, inaugurato nel marzo scorso all’interno della scuola primaria del Villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam.

L’Oasi di pace – questo il significato del nome, in ebraico e arabo – fu fondata oltre cinquant’anni fa dal padre domenicano Bruno Hussar insieme ad Anne Le Meignen (cui si deve il lascito che ha permesso la creazione del nuovo Centro linguistico) e sorge su una collina a mezz’ora da Gerusalemme. Oggi è una comunità abitata da un centinaio di famiglie ebree e palestinesi (tutte di cittadinanza israeliana), equamente divise dal punto di vista numerico. Rappresenta un modello di convivenza e una «scuola per la pace» nel quotidiano.

Insieme fin da piccoli

Il laboratorio è pensato per aiutare gli allievi – ma anche i docenti e i genitori – nell’apprendimento dell’ebraico e dell’arabo. Lo spazio è diviso in diversi ambiti: dalla lettura al teatro; dalla riproduzione di un piccolo supermercato a morbidi cuscini posati a terra per fare conversazione. L’attrazione maggiore è Dynami-Class: uno strumento digitale che permette di imparare coinvolgendo attivamente il corpo intero. Dappertutto, le parole sono scritte in entrambe le lingue.

>>> Leggi anche: Israele, «Così siamo cresciuti in un’Oasi di pace»

Il Centro, come anticipato, s’inserisce all’interno della scuola del Villaggio, il primo istituto bilingue e binazionale aperto in Israele, nel 1984. Fu un esperimento pionieristico e una piccola, grande rivoluzione, nel quadro di un Paese che prevede percorsi d’istruzione separati per ebrei e arabi.

Un angolo del nuovo laboratorio linguistico delle scuole di Neve Shalom Wahat al Salam. (foto Nswas)

Nella scuola – ufficialmente riconosciuta dal ministero dell’Istruzione e frequentata al 90 per cento da studenti che provengono da una ventina di comunità limitrofe al Villaggio – le classi sono composte per metà da bambini ebrei e per metà da bambini arabi, musulmani e cristiani. Molte materie vengono insegnate attraverso il co-teaching, ossia la co-presenza di due insegnanti, ebreo e arabo, che parlano ai bambini ciascuno nella propria lingua madre.

La centralità del bilinguismo

Il bilinguismo è uno dei pilastri fondanti di questa scuola – e dell’intero Villaggio – insieme allo sviluppo dell’identità e alla conoscenza e rispetto della cultura, storia, fede e tradizioni dell’“altro”.

Abbiamo chiesto a Neama Abu Delo, la direttrice, di spiegarci perché mai è così importante portare tutti gli studenti a un buon livello di conoscenza di ebraico e arabo, al punto da creare una struttura dedicata. Ci risponde al telefono, dal suo ufficio: «La lingua è un ponte, un passaggio indispensabile per conoscere l’altro. Va sottolineato innanzitutto che l’arabo è una lingua più difficile e complessa dell’ebraico. Si divide infatti in scritto (letterario e formale) e parlato, colloquiale: è come se fossero due lingue».

Neama Abu Delo parla a ragazzi e genitori durante la festa per l’inaugurazione del Centro linguistico nel marzo 2023. (foto Nswas)

Fino alla terza classe, tanto per l’ebraico quanto per l’arabo l’accento viene posto principalmente sulla conversazione, la conoscenza delle lettere dell’alfabeto e l’acquisizione del vocabolario di base: «Cerchiamo di fare in modo che i bambini siano in grado di imparare il maggior numero possibile di parole attraverso giochi, canzoni, video», puntualizza Neama.

Solo a partire dal quarto anno si inizia a lavorare sempre di più con i testi.

Programmi e strumenti didattici da costruire ex novo

La direttrice spiega anche che, mentre in Israele è disponibile un programma didattico strutturato e standardizzato per l’insegnamento dell’ebraico come seconda lingua, non esiste uno strumento analogo per l’insegnamento dell’arabo ai bambini ebrei come seconda lingua. Di qui la necessità di elaborare qualcosa di peculiare: «Il programma che seguiamo per l’arabo è una creazione dei nostri insegnanti».

Neama aggiunge che sul mercato non vi sono, per il momento, sufficienti contenuti didattici, validi e nuovi, per l’insegnamento dell’arabo: «Abbiamo dovuto inventare, costruire e creare tutto da zero», conclude.

Il Centro linguistico è nato dunque come risposta alla duplice necessità di avere a disposizione, da un lato, un più ampio ventaglio di strumenti interattivi e, dall’altro, uno spazio per consentire agli studenti ebrei – per nulla “esposti” all’ascolto dell’arabo nell’ambiente di appartenenza – di fare maggiore pratica.

Una dimostrazione del funzionamento di Dynami-Class, strumento innovativo per l’apprendimento di arabo ed ebraico. (foto Nswas)

Il giorno dell’inaugurazione, Ariela Ben Ishay, a capo delle istituzioni educative di Neve Shalom Wahat al Salam, ha commentato così: «Una delle cose più importanti che vogliamo avvengano qui per gli studenti, è che non solo imparino a comprendere la lingua dell’altro, ma che arrivino ad amarla. Il bagaglio di conoscenze che assorbiranno qui resterà con loro per tutta la vita, e diventerà qualcosa di naturale».

L’esperienza di Hand in Hand

Sul modello della scuola primaria di Neve Shalom Wahat al Salam, in Israele sono nate, dal 1997, le scuole bilingui e binazionali di Hand in Hand. Oggi sono sei, distribuite in varie zone del Paese e in particolare nelle città miste. Si trovano a Gerusalemme, Haifa, Tel Aviv-Jaffa, Kfar Saba (nel centro del Paese), in Galilea e nella zona di Wadi Ara.

Anch’esse sono parte del sistema d’istruzione pubblico e finanziate per circa il 60 per cento dallo Stato (e dalle rette). Il restante 40 per cento delle spese di gestione è coperto dai fondi che le scuole stesse riescono a procurarsi da enti filantropici (in larga parte statunitensi).

Gran parte delle sfide e difficoltà messe in luce da Neama Abu Delo in relazione al tema del bilinguismo vengono evidenziate anche da Lee Gordon, co-fondatore e direttore di American Friends of Hand in Hand, che durante una videochiamata, con grande gentilezza e disponibilità, ci ha fornito un quadro ampio dei vari aspetti in gioco.

Sin dalla scuola materna

«La lingua dominante in Israele è l’ebraico», esordisce Lee Gordon. «Il nostro obiettivo è portare entrambi i gruppi a una conoscenza fluente sia dell’ebraico sia dell’arabo. Lo perseguiamo in vari modi. Per prima cosa, nella maggior parte delle nostre scuole iniziamo dall’asilo, con bambini molto piccoli, di tre, in alcuni casi addirittura due anni. A Haifa, ad esempio, i bambini iniziano a frequentare a due anni. Inoltre, in ogni classe, almeno fino al quarto e quinto grado, ci sono due insegnanti: una ebrea e una araba. Dunque i bambini, prima ancora di usare i testi, ascoltano per tutto il tempo in entrambe le lingue. Stessa cosa all’asilo, dove, ad esempio, i piccoli si riuniscono seduti in cerchio la mattina un giorno parlando in arabo, e il giorno successivo in ebraico; oppure la mattina in una lingua e al pomeriggio nell’altra».

Inoltre, tiene a precisare, ogni comunicazione all’interno della scuola – dalle email, ai contenuti stampati, ai poster sulle pareti… – è sia in ebraico sia in arabo.

Piccole studentesse di una scuola di Hand in Hand. (foto Hand in Hand)

Dato che l’arabo è decisamente più difficile dell’ebraico, continua Lee, «non ci aspettiamo che gli studenti ebrei arrivino tutti a padroneggiare perfettamente l’arabo scritto e letto. Vogliamo piuttosto che imparino il più possibile l’arabo della comunicazione orale: il nostro scopo è promuovere la collaborazione».

A livello di strumenti didattici, anche Hand in Hand riferisce di un “vuoto” da colmare in relazione all’arabo: la soluzione principale adottata è stata la messa a punto di una guida pratica per gli insegnanti, suddivisa per fasce d’età.

Docenti alla pari

Alla formazione è dedicato largo spazio. I nuovi insegnanti – scelti direttamente dai direttori delle scuole – partecipano a vari seminari prima di entrare ufficialmente in classe. Durante l’anno, i docenti hanno riunioni settimanali e sono costantemente accompagnati da formatori esterni.

Agli insegnanti ebrei è richiesto inoltre di studiare l’arabo, almeno quello parlato. Una volta al mese, infine, i direttori di tutte le scuole partecipano a un’intera giornata per discutere di un tema specifico.

«Si potrebbe pensare che, con classi di 25-26 studenti e due insegnanti co-presenti, il lavoro sia più semplice», spiega Lee Gordon. «Ma non è così: è, al contrario, più difficile. Perché devono lavorare insieme come partner, totalmente alla pari. A volte l’alchimia funziona, e gli insegnanti diventano amici. Talvolta invece vi sono degli attriti, che bisogna imparare a gestire».

Equilibri da mantenere

Al termine della conversazione, chiediamo al nostro interlocutore quali siano le sfide principali che le scuole di Hand in Hand affrontano oggi. Risponde senza esitazione che la difficoltà maggiore è mantenere l’equilibrio numerico tra ebrei e arabi nella composizione delle classi.

«Oggi tale equilibrio, soprattutto nei primi anni, è preservato», racconta. «Ci sono, però, state fasi, ad esempio in Galilea, in cui alcune classi erano formate per tre quarti da studenti arabi e per un quarto da ebrei». «Abbiamo intervistato diverse famiglie su questo – spiega Gordon –. È emerso che la ragione sta nel fatto che le famiglie arabe costituiscono una minoranza all’interno d’Israele, vivono una condizione di discriminazione, e reputano le scuole di Hand in Hand migliori. Vogliono che i loro figli imparino l’ebraico fin da piccoli, in modo da essere più integrati nella società. Se da grandi vorranno andare all’università, dovranno conoscere bene l’ebraico».

Comunità condivise

Dalle interviste condotte, è emerso anche il dato che le famiglie arabe possono scegliere tra un minor numero di scuole valide. Al contrario, quelle ebree – specialmente nelle grandi città come Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa – possono contare su una molteplicità di istituti validi.

Lee conclude: «Gli ebrei non hanno bisogno di imparare l’arabo per sopravvivere in Israele. Noi di Hand in Hand crediamo però che sia un’occasione mancata se non lo studiano. Vogliamo fare la pace, e per farla va considerato che lo Stato d’Israele è circondato da Paesi che parlano arabo: la Cisgiordania, il Libano, la Siria, la Giordania, l’Egitto… Ogni ebreo dovrebbe imparare la lingua araba. Per questo ci diamo molto da fare affinché possiamo conservare nelle classi la parità numerica tra ebrei e arabi, così come tra maschi e femmine. Abbiamo anche una comunità di genitori molto attiva e numerosi programmi per adulti, rivolti anche a persone che non hanno figli a scuola da noi: vogliamo creare, intorno, comunità realmente condivise».

Lee si interrompe un attimo, s’illumina in volto e riprende: «E vedere l’amicizia tra i genitori naturalmente aiuta anche i ragazzi: genera una sorta di “energia” comune».


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