Prima la trasferta di una nutrita delegazione ministeriale inviata da Riyadh, poi il viaggio, in luglio, del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Pechino si conferma una meta imprescindibile per diplomatici, politici e imprenditori mediorientali.
Quando Israele e Arabia Saudita fanno la stessa cosa nello stesso tempo, vale la pena di dare un’occhiata. Succede infatti che l’Arabia Saudita sta inviando una delegazione di ventiquattro dignitari, capeggiati dal ministro dell’Economia e della Pianificazione Faisal Alibrahim, verso la Cina per partecipare al Meeting annuale dei Nuovi Campioni, che si svolge nella città portuale di Tianjin (o Tientsin) che, con i suoi oltre 15 milioni di abitanti, è la quarta municipalità del Paese dopo Shanghai, Pechino e Chongquing.
Al Meeting sarà presente il premier cinese Li Qiang e al ministro Alibrahim sono stati riservati i discorsi di apertura di due seminari che corrispondono esattamente a due delle priorità della politica saudita: l’innovazione come strumento per garantire la sicurezza alimentare e ambientale e la collaborazione in economia tra settore pubblico e settore privato.
Mentre Alibrahim prendeva l’aereo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu approfittava della visita a Gerusalemme di alcuni parlamentari americani per annunciare un suo prossimo viaggio in Cina, forse già in luglio (preceduto, pochi giorni fa, da quello del presidente palestinese Mahmoud Abbas – ndr). Per Bibi sarebbe il quarto viaggio a Pechino in sedici anni al potere, l’ultimo nel 2017. I rumours di Israele dicono che non tutti, nel governo, hanno accolto con favore l’annuncio, temendo di urtare la sensibilità degli Stati Uniti. D’altra parte, secondo molti, l’iniziativa di Netanyahu è anche una forma di provocazione nei confronti di Joe Biden, che non l’ha ancora invitato alla Casa Bianca e che ha trasformato in persone non gradite a Washington alcuni dei suoi ministri, quelli più direttamente espressi dall’ultradestra sionista, come il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir.
In ogni caso, sia l’iniziativa saudita sia quella israeliana vanno lette nell’ottica dell’accelerazione che la Cina ha impresso alle proprie relazioni con i Paesi del Medio Oriente. Dal punto di vista politico, proprio l’Arabia Saudita ne è stata testimone e insieme protagonista quando ha siglato un accordo di distensione con il vecchio nemico Iran mediato, appunto, da Xi Jinping. E Israele nell’ultimo decennio ha visto crescere gli scambi commerciali con la Cina dai 9,6 miliardi di dollari del 2012 ai 21,8 del 2022. I cinesi hanno investito in molti progetti israeliani nel settore dell’energia, dell’acqua, dei trasporti (per esempio, nelle linee di ferrovia leggera di Tel Aviv). E la cinese Sipg è diventata l’operatore della nuova sezione del porto di Haifa.
È chiaro che né l’Arabia Saudita (peraltro l’unico dei Paesi del Golfo Persico a non ospitare basi militari americane), né Israele hanno intenzione di rompere la lunga e proficua amicizia che da molti decenni li lega agli Stati Uniti. Ma la realtà è quella che è: l’ascesa della Cina è evidente e sarebbe un peccato non esplorare quanto di buono, per lo meno in termini di sviluppo economico, potrebbe nascere dai rapporti con Pechino.