Vent'anni di scoperte di giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale hanno suscitato speranze sull’avvio di un’era di pacificazione in Medio Oriente. Senza affrontare le cause dei conflitti, gli interessi energetici accrescono, però, le tensioni. Lo spiega un rapporto dell’International Crisis Group.
Negli ultimi quindici anni gli Stati Uniti non hanno esitato a parlare di «diplomazia del gas»: la scoperta di giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale avrebbe portato al tavolo negoziale Paesi in conflitto, sotto l’egida dell’Unione Europea, e aperto una stagione di cooperazione energetica fra Israele, Autorità palestinese, Giordania, Egitto, Libano, Cipro, Grecia, Turchia. L’invasione russa dell’Ucraina un anno fa, con la crisi delle forniture di gas russo, sembrava poter accelerare questo percorso e far entrare nel vivo le attività del Forum del gas del Mediterraneo orientale, istituito nel gennaio 2020.
Oggi, avverte in un rapporto l’International Crisis Group, uno dei maggiori centri di studio sulle risoluzioni dei conflitti, il progetto di un gasdotto promosso dall’Unione Europea per importare il gas di Israele e di Cipro è fermo al palo per ragioni commerciali e ambientali; le aspettative di produttori e potenziali acquirenti si sono rivelate sovrastimate e i progetti di accordi bilaterali si sono arenati di fronte agli scogli dei conflitti in corso. Sarebbe tuttavia assolutamente necessario, rimarcano i ricercatori, darsi obiettivi più circoscritti e realistici: coltivare un approccio inclusivo di sfruttamento dei giacimenti per promuovere integrazione regionale e stabilità, mentre prosegue la transizione verso le energie rinnovabili.
Un ventennio di scoperte
Nel 1999-2000 la scoperta di un giacimento nelle acque di Gaza da parte della British Gas aveva fatto sperare a Yasser Arafat che il traguardo di uno Stato fosse più vicino. Ma lo scoppio della seconda Intifada (2000), la morte del leader palestinese (2004) e la presa del potere a Gaza da parte di Hamas (2007) hanno congelato il progetto: le trivellazioni non sono mai iniziate a causa del blocco imposto da Israele. A partire dal 2009 le scoperte al largo di Israele del giacimento di gas Tamar, per circa 283 miliardi di metri cubi di gas stimati, e nel 2010 di Leviatano, da circa 498 miliardi di metri cubi, avevano sollevato Israele dalla dipendenza dall’Egitto e proiettato la dirigenza del Paese alla ricerca di acquirenti.
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Nel 2011 poi c’era stata la scoperta di Afrodite, al largo di Cipro, per il quale la stima era tra i 101 e i 169 miliardi di metri cubi. Nel 2015 poi l’Eni aveva scoperto nelle acque egiziane Zohr, il maggiore giacimento di tutto il bacino del Mediterraneo orientale, con una stima da 850 miliardi di metri cubi, tale da far impallidire le stime di sfruttamento degli altri.
Aspettative forse sovradimensionate
A distanza di anni si vede però come gli interessi contrapposti sui giacimenti abbiano esacerbato anziché mitigato le tensioni. All’inizio del decennio la cooperazione fra Israele e Giordania e quella fra Israele ed Egitto avevano relativamente ammorbidito le relazioni bilaterali, contrassegnate in entrambi i casi da quel che viene definita una «pace fredda». L’accordo dei mesi scorsi fra Israele e Libano aveva fatto sperare ai mediatori statunitensi che i due contendenti, formalmente in guerra, arrivassero a trattare anche su materie non energetiche. Anche in questo caso, così non è stato.
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Né Cipro né Israele posseggono mercati interni e infrastrutture per l’export sufficientemente grandi per attrarre investimenti esteri indispensabili per programmare trivellazioni a lungo termine. Nel caso di Cipro, poi, le mire sul gas hanno allontanato anziché avvicinare le due comunità greca e turca presenti sull’isola.
Il gasdotto EastMed-Poseidon più lontano
L’istituzione del Forum del gas del Mediterraneo orientale fra Italia, Francia, Egitto, Grecia, Cipro, Israele, Giordania e Autorità palestinese, con l’endorsement di Unione Europea e Stati Uniti aveva suscitato grandi attese di una più stretta cooperazione economica e di una maggiore integrazione regionale. Ma l’esclusione per varie ragioni di attori chiave come la Turchia, il Libano, le autorità turco-cipriote che controllano il nord di Cipro e di Hamas, che a causa delle restrizioni israeliane non ha accesso al giacimento al largo di Gaza, ha ridotto l’operatività dell’organismo e ridimensionato le prospettive. Anche perché le pressioni crescenti per la transizione verso la sostenibilità ambientale e l’abbandono delle energie fossili, di fatto, scoraggiano i potenziali investitori europei da impegni in progetti lunghi e costosi che richiederebbero anni prima di dare risultati. È stato questo il motivo principale per cui si è arenato il progetto del gasdotto EastMed-Poseidon che avrebbe dovuto trasportare fino a 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dai depositi di Cipro e Israele verso la Grecia, per arrivare infine in Puglia.
Tre fattori chiave per obiettivi raggiungibili
Secondo i ricercatori ci sono almeno tre fattori chiave che potrebbero far rimodulare il progetto. Primo: se, da una parte, le dimensioni commerciali europee richiedono che l’Ue guardi altrove per acquisizioni a breve termine, dall’altra i Paesi in possesso del gas nel Mediterraneo orientale dovrebbero concentrarsi sull’integrazione regionale e sui mercati locali. Secondo: a lungo termine, l’inclusione della Turchia nel Forum del gas appare inevitabile, se si vuol fare di questa risorsa energetica un vettore di stabilità e di integrazione anziché l’ennesimo capitolo di disputa fra Paesi in conflitto. Terzo: se i Paesi della sponda Nord del Mediterraneo (e gli Stati Uniti) vogliono giocare un ruolo da mediatore in un’area così dilaniata da conflitti irrisolti, non è il gas che può essere il motore degli sforzi per porre fine a dispute politiche, nazionali e territoriali. Se non si affrontano i nodi politici, la diplomazia del gas non può che mostrare la corda.
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