Due vescovi a confronto per raccontare le “loro” città. L’appuntamento del 26 aprile scorso a Palazzo Vecchio, a Firenze, è stato forse il più interessante tra gli eventi che hanno fatto corolla all’installazione immersiva allestita in Sala d’Arme per rappresentare gli intrecci tra Gerusalemme e il capoluogo toscano.
Il cardinale Giuseppe Betori e il patriarca di Gerusalemme dei Latini, mons. Pierbattista Pizzaballa, hanno alternato le loro riflessioni, stimolati dal giornalista Marco Tarquinio, direttore del quotidiano Avvenire e seguiti da un pubblico molto attento.
Ne sono emerse peculiarità e comunanze, su questioni cruciali osservate da prospettive differenti.
I connotati delle due città
Il patriarca Pizzaballa è partito dal testo biblico: «La città nella Bibbia appare per la prima volta nel capitolo 4 (versetto 17) della Genesi, dove si racconta che il primo a costruire una città fu Caino. Dopo la violenza fratricida, Caino, che ormai ha una famiglia, ha bisogno di un contesto in cui arginare la violenza e nel quale la convivenza con gli altri comincia ad assumere forme più precise. Gerusalemme è, a un tempo, luogo simbolico (pensiamo alla città ideale: la Gerusalemme celeste), e città concreta, reale, fatta di persone. I due piani si mischiano sempre. In Gerusalemme è presente un afflato religioso sincero, perché tutti vi cercano un rapporto con Dio, ma anche tutta la loro umanità, che viene fuori senza essere politically correct. Nella vita quotidiana c’è il desiderio di bellezza, di spiritualità, di vita, di fede profonda, ma anche violenza, tanto quella fisica, quanto quella che si percepisce nelle relazioni: tutto è molto duro, molto complesso. La convivenza ha a che fare con una storia fatta di tante ferite reciproche. Anche i rapporti tra le Chiese non sono mai stati semplici, anche se oggi è molto diverso».
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La Gerusalemme che il patriarca descrive è poliedrica e policentrica: «Non c’è una sola Gerusalemme: c’è una Gerusalemme sacra (la città vecchia e il Monte degli Ulivi) e una Gerusalemme laica; c’è quella ebraica, musulmana, cristiana… C’è la Gerusalemme del centro e quella delle periferie. La città sta diventando sempre più anche una capitale economica. È in crescita anche dal punto di vista sociale e demografico. Crescono soprattutto le componenti musulmana ed ebraico-religiosa (gli ultraortodossi – ndr). Quest’ultima aumenta del 4 per cento l’anno, per via della natalità e dell’immigrazione. I cristiani crescono molto meno, hanno imparato dagli europei».
«Dal punto di vista religioso siamo in una fase complessa. Gerusalemme è sempre stata, per sua natura, una città aperta, inclusiva (per cristiani, ebrei e musulmani) e non soltanto sotto il profilo individuale, ma anche comunitario in cui ogni gruppo si può esprimere anche pubblicamente. È quello che chiamiamo status quo, equilibrio tra le comunità. Ora questo equilibrio appare più precario e fragile. Anzitutto dal punto di vista demografico cambiano i rapporti di forza. Essere inclusivi significa che le diverse narrative vivono una accanto all’altra. Sono narrative che hanno legami con il territorio, con i luoghi, ove a volte si sovrappongono. Queste narrative hanno sempre vissuto una accanto all’altra. Ora invece assistiamo al tentativo di una narrativa che pretende di essere esclusiva e si impone su ogni altra. Questo va contro lo spirito della città che, come dice anche il profeta Isaia, dovrebbe essere “casa di preghiera per tutti i popoli”».
L’arcivescovo di Firenze, Betori, ammette un certo imbarazzo nel dover descrivere sulla città, lui che sta ancora imparando a diventare fiorentino, da umbro prestato a questa diocesi quindici anni fa da papa Benedetto XVI. Proprio per questo la sua è una lettura personale e non necessariamente condivisibile, dice.
«La cifra fondamentale con cui si guarda a questa città – osserva – è la cifra della bellezza. Giorgio La Pira la chiamava “quiete”, a me piace chiamarla “armonia”. Credo che l’atteggiamento vero con cui guardare a Firenze sia quello della contemplazione, perché Firenze ti dona qualcosa attraverso la sua bellezza. È una cosa molto strana, perché Firenze vive di grandi tensioni, di grandi contrapposizioni, non c’è mai una cosa condivisa totalmente a Firenze, c’è sempre un modo di mettersi in discussione tra di noi. Però da questi grandi contrasti che attraversano la sua storia e il suo presente nasce l’armonia. Questo l’architettura lo dice con lapalissiana evidenza, tolta forse qualche architettura ultima, ma non voglio soffermarmici. L’anima di Firenze per me è che qui sento che si ricompone la mia vita, dentro a questa armonia. (…) Questa è la prima vocazione della nostra città: aiutare alla contemplazione. Cosa che è sistematicamente disattesa dal modo in cui la stragrande maggioranza delle persone che vengono a Firenze fruisce di questa bellezza. Corre, pensa a fare sempre più selfie, cercando di catturare più immagini possibili della città, ma poi non riuscendo a entrare in sintonia con questo luogo di contemplazione».
Dunque anche Firenze è stata ed è, come Gerusalemme, luogo di contrasti, dai quali però sono sbocciati fiori mirabili.
«Una scoperta che ho fatto quando sono giunto qui – soggiunge il cardinale – è che oggi Firenze è meno di un tempo espressione di alta cultura – lo è stata sino a metà Novecento. È però un’esplosione di carità, di solidarietà. È una città che non abbandona, che non mette ai margini nessuno, che si inventa forme sempre nuove di carità. Dalle Misericordie in giù la storia di Firenze non arretra di fronte al fatto che tutti devono essere curati. Naturalmente non è facile raggiungere tutti e anche tra noi crescono le povertà».
«Un’altra caratteristica che mi piace evidenziare è questa: la città ha potuto esprimersi culturalmente, artisticamente, grazie a un grande lavoro. Questa è una città di lavoro; una città che ha fatto i soldi con i quali poter poi edificare i monumenti. Soldi che ha fatti con la fatica delle persone. Oggi il lavoro è caratterizzato da dinamiche diverse che non considerano più così tanto la dignità delle persone. Il lavoro nella città è assai in crisi. Pensiamo solo alle vicende dell’ex GKN… Questa città oggi produce ben poco. Vive di rendita. Una rendita che si basa essenzialmente sul turismo e che fa sì che la città si stia squilibrando. Il centro di Firenze va perdendo i suoi abitanti, la sua gente, perché bisogna mettere a reddito. Un caso tipico: muore la nonna e la sua abitazione viene ereditata dal nipote, il quale va ad abitare in periferia e affitta la casa in centro ai turisti per mantenersi. Non voglio stigmatizzare tutto ciò, ma osservo che non può essere questo il futuro di Firenze. Così si disgrega il cuore della città e il centro resterebbe un involucro di pietre, senza più volti».
La Chiesa nella città e il dialogo tra credenti
Il cardinale Betori parte da un fatto: «Qualche mese dopo la Dichiarazione di Abu Dhabi (sottoscritta nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmed al Tayyeb) l’abbiamo messa su un tavolo io e l’imam [di Firenze, Izzedin Elzir – ndr] e abbiamo firmato una dichiarazione comune, per dire anche noi qui a Firenze pensiamo che sia importante il dialogo tra le religioni».
Questo per dire che in città «c’è una bella amicizia tra le religioni» o almeno tra i responsabili delle diverse comunità. Oggi, spiega l’arcivescovo, «tutti soffriamo per le difficoltà della comunità islamica a dotarsi di un adeguato luogo di incontro e di culto». «Due o tre anni fa trovammo un accordo, io, l’imam e il rettore dell’Università, per la cessione di un terreno su cui edificare la moschea. La cosa poi si è fermata per una scelta etica della comunità islamica molto interessante: preferiscono che i finanziamenti siano di provenienza sicura e che implichino condizionamenti alla nomina dell’imam o all’autonomia della comunità. Mi sento di ringraziare l’imam e la sua comunità per questo».
Reciproca fiducia e sostegno camminano sulle gambe degli uomini e delle donne – ognuno può fare la differenza! – ma è anche vero che si rinsaldano nel corso della storia, dove si è (stati) capaci di spargere semi buoni. «A Firenze abbiamo, soprattutto, una grande tradizione di dialogo con l’ebraismo. Qui è nata (a metà del secolo scorso – ndr) l’Amicizia ebraico-cristiana, grazie a La Pira e tanti altri. Un’esperienza che si è inserita nel grande slancio di accoglienza (nel corso della seconda guerra mondiale) messo in atto dal cardinale arcivescovo Elia Della Costa, che ha salvato centinaia di ebrei. Sono tutte cose che hanno il loro peso. A mia volta posso dire di essere amico dell’imam e del rabbino (Gadi Piperno). Questi legami di amicizia per me sono fondamentali. Ai miei preti più giovani ho proposto due lezioni su temi spirituali affidandole una all’imam e una al rabbino».
«Da noi la situazione è ribaltata – osserva il patriarca Pizzaballa –. Voi qui siete maggioranza e i musulmani minoranza. Da noi, in tutto il Medio Oriente, la minoranza sono i cristiani. Siamo pochi, ma vivaci e non rinunciatari. Le dinamiche sono quindi molto diverse e variano anche da Paese a Paese. Possiamo dire che ci sono tanti islam diversi. Abbiamo concluso domenica (23 aprile), a Cipro, un simposio di tutte le Chiese cattoliche del Medio Oriente. Uno dei temi proposti era: il dialogo interreligioso tra Isis e Abu Dhabi (i due poli). Ci siamo chiesti come lo abbiamo vissuto. È, in fondo, il tema della piena cittadinanza. Sono questioni molto vive, sentite e concrete, che toccano la vita di tutte le nostre comunità in maniera molto vera. Penso all’Iraq. Al simposio c’era il patriarca Sako e altri membri della sua Chiesa che ci esortavano a tener conto del fatto che l’islam sta cambiando, e noi dobbiamo guardare avanti senza permettere che le nostre ferite determinino le nostre relazioni con i musulmani».
«Da noi – prosegue Pizzaballa – il rapporto con l’islam è molto complesso. Qui in Europa, l’islam è solo una religione. Da noi è anche potere civile. In alcuni Paesi la sharia è legge [fondamentale] dello Stato, e sotto alcuni aspetti – come le questioni di eredità – sono le sue norme ad essere decisive. Posso dire, comunque, che c’è un desiderio vero e sincero, da parte di tutte le Chiese, di dialogare con l’islam. Non tanto perché dal punto di vista pratico è inevitabile, ma perché il Vangelo ce lo ordina. È una sottolineatura che è a Cipro è stata espressa dai nostri laici».
Anche se il documento di Abu Dhabi non è molto conosciuto e studiato in Terra Santa, ammette il patriarca latino, rimane un testo fondamentale. «Avvertiamo che dopo le grandi crisi degli ultimi anni – soprattutto in Iraq, in Siria, in Egitto, in Libano – non solo tra i cristiani, ma anche in vari movimenti musulmani si sente il bisogno di trovare un linguaggio nuovo e diverso. In questo contesto il rapporto tra cristiani e musulmani è molto importante perché i cristiani hanno costitutivamente nel loro Dna una chiarezza di distinzione tra sfera civile e sfera religiosa. In Europa si parla di laicità; da noi in Medio Oriente la laicità non esiste, e non esisterà. Si comincia a parlare, semmai, di distinzione tra sfera civile e religiosa. Il contributo dei cristiani in questa riflessione è fondamentale. La loro stessa esistenza in seno a una società costringe gli Stati a una legislazione plurale. Anche dove vige la sharia, se c’è una presenza cristiana il legislatore deve quanto meno porsi la questione: coi cristiani come ci comportiamo? Purtroppo, ci sono sempre meno cristiani attivi nella vita pubblica, ma nelle istituzioni culturali (università, centri di studio ecc.) il loro contributo a questa riflessione è importante».
Globalizzazione e diritti
«Europa e Oriente – ribadisce mons. Pizzaballa – hanno dinamiche diverse, anche sul versante della secolarizzazione. In Medio Oriente la religione avrà sempre un ruolo pubblico chiaro: Israele è uno Stato ebraico (piaccia o no, si considera tale); gli altri Paesi – con l’eccezione forse del Libano – sono Stati in cui l’islam è religione di Stato. Questo non può cambiare e non cambierà. Lo Stato laico, come lo si intende in Europa, non ha spazio in Medio Oriente, dove la religione fa parte dell’identità della nazione, contribuisce a definirla. Tu puoi anche essere ateo, ma sei un ateo ebreo, un ateo cristiano, o musulmano, cioè appartieni a una comunità specifica con le sue tradizioni, il suo linguaggio, i suoi nomi, e, molto spesso, anche i suoi luoghi geografici. Constatiamo invece, questo sì, una sempre maggiore ritrosia nei confronti delle istituzioni religiose, che spesso sono percepite come soverchianti».
«Per altri versi non possiamo ignorare che ormai anche nelle tende dei beduini arrivano Internet, Facebook e Instagram… Magari questa gente non ha l’acqua potabile e i servizi in casa, ma ha accesso alla Rete. Si balza da una condizione di estrema povertà, in tutti i sensi, alla modernità senza alcuna fase di transizione intermedia. Le contraddizioni sono forti».
Il cardinale Betori ammette che «è doveroso riconoscere il distacco sempre più accentuato dalle forme esterne della fede anche tra di noi». Allora cosa fare? Quella dell’arcivescovo di Firenze è una risposta del tutto personale: «Non voglio affrontare questo problema semplicemente dal punto di vista della fede, ma anche da quello della cultura. (…) Mi aggrappo a una voce, unica ma non indifferente: quella di un filosofo di matrice marxista, sia pure di un marxismo rivisitato, come Jürgen Habermas. Dialogò con Joseph Ratzinger (nel 2004 – ndr) e da quel dialogo in poi lui sta continuando su questa strada. Ultranovantenne, continua a pubblicare i suoi libri ritornando sempre su questo tema: la democrazia è una bella cosa, ma è un vuoto di contenuti che dev’essere riempito. Tutti coloro che hanno contenuti da offrire devono metterli dentro, per contribuire a riempire quel vuoto che è la democrazia. Non si può stabilire democraticamente quel che è vero o non è vero. Si potrà stabilire, al più, ciò che la maggioranza ritiene sia giusto o ingiusto. Ma il vero non può dirlo la democrazia. Possono farlo, invece, – dice Habermas – le religioni e la riflessione filosofica. Questo per me è un grande spiraglio: sapere che, portato alle estreme conseguenze, il pensiero che ci regge deve riconoscere di aver creato un contenitore bisognoso di contenuti. Mi dico che allora ho anche io una grande responsabilità: sul piatto vuoto della democrazia, posso deporre un pieno, col quale tutti possano confrontarsi. E allora, come posso rendere credibili, appetibili, i contenuti della fede sul piano della concorrenza democratica? Come tradurre la mia fede in una vita bella, appetibile, buona, su cui si può scommettere e che può anche trovare un consenso? Si tratta di mettere a disposizione degli altri una consistenza buona. Ci possiamo provare. È una visione ideale, lo capisco. Non una risposta più immediata. Quando incontro le comunità parrocchiali, durante la visita pastorale, e mi chiedono cosa possiamo fare, io rispondo: “O si diventa santi oppure è inutile. Non è questione di metodo. È tutta questione di santità”. Non a caso il primo sguardo che abbiamo incontrato in questa sala, entrando oggi, è stato quello di Giorgio La Pira (il «sindaco santo» di Firenze negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso – ndr). Devo riconoscere, comunque, che la società è disponibile ad ascoltarci. Quando si riesce a dire una parola sulla città si è sempre ascoltati».
La dinamica centro-periferie
Per Betori, quando si parla di centro e periferie, Firenze ha un parametro con cui misurarsi, il progetto che La Pira realizzò nel quartiere dell’Isolotto. Diceva: in una città un posto deve esserci per tutti: un posto per pregare (una chiesa), un posto per lavorare (una casa), un posto per lavorare (un’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale). Questa è l’armonia della vita che doveva trovare anche espressione urbanistica. «La Pira ci provò – osserva il cardinale –. Neppure l’Isolotto è perfetto, ce lo ricordano anche i giornali di questi giorni che parlano dei problemi sociali presenti, ma quando in quel quartiere e guardi al cielo riesci a vederlo perché le case hanno pochi piani e, tutte, un po’ di verde intorno. Poi c’è la piazza. C’è un senso di umanità nella città. Credo che la sfida, anche oggi, sia quella di replicare un modello simile».
«A Gerusalemme siamo un po’ più complicati – incalza mons. Pizzaballa –: c’è la Gerusalemme ebraica e quella palestinese. Abbiamo più periferie, di qua e di là dal muro di separazione, e il conflitto le permea. Nella parte ebraica di Gerusalemme possiamo considerare periferie i quartieri popolati dalla comunità religiosa. In genere si pensa a Mea Shearim, ma non ce sono tanti altri dove la popolazione è molto povera e lo si vede dalle case e dal tenore di vita. Anche lì la situazione sta cambiando, però. Diventano sempre più consapevoli e vogliono entrare sempre più dentro la vita amministrativa della città. In Comune i religiosi sono più rappresentati che in passato». «Per i palestinesi, invece, la periferia è sociale ma anche geografica e implica sempre maggiori difficoltà d’accesso alla vita della città. Vi sono quartieri al di là del muro, completamente tagliati fuori. Le differenze sono enormi anche riguardo ai prezzi e al costo della vita. Si sta considerando la possibilità di creare un’amministrazione decentrata araba per i quartieri orientali che sia più vicina ai bisogni e alla sensibilità del territorio (come accade con i municipi delle grandi città italiane – ndr). C’è poi l’annoso dibattito palestinese sul voto alle amministrative: bisogna votare per partecipare e far valere le proprie istanze o non votare in ossequio al principio di non riconoscimento dell’autorità israeliana sulla città? È una discussione molto delicata, difficile e dolorosa».
Quando verrà la pace
Inevitabile, in una stagione come questa, un riferimento alla questione della pace.
Il patriarca di Gerusalemme sospira. «Gerusalemme non è generosa con chi ha fretta – dice –. Ci vuole pazienza per entrare nella sua vita nascosta, che racchiude anche tanta bellezza. Non è la bellezza (prorompente) di Firenze, ma la bellezza di una vita religiosa autentica e di partecipazione e unità. Gerusalemme non è solo conflitto. È una città che sembra condannata a vivere di divisioni religiose e politiche. In realtà è lo specchio di quello che siamo tutti noi. Le divisioni religiose non sono nate a Gerusalemme, che semmai le ha accolte e le vive nella sua carne. Non potrebbe essere diversamente. Se Gerusalemme è un po’ il cuore del mondo, le sofferenze del corpo non possono che riguardare il cuore. Noi cristiani avremmo qualcosa da dire: non si può parlare di pace senza parlare di giustizia, ma la giustizia non potrà mai venire senza il desiderio di andare oltre le ferite. Gerusalemme vive sempre dentro questa tensione: un grande desiderio di incontro con Dio, di grande e profonda spiritualità, accanto a tutte le contraddizioni che stanno dentro di noi. Io penso – e spero di sbagliarmi – che questa tensione continuerà ad essere parte costitutiva della vita di Gerusalemme. Ora come ora non si vedono soluzioni all’orizzonte (neppure per un eventuale Stato palestinese e per Gerusalemme capitale dei due Stati). Negli anni tanti accordi sono saltati, anche perché sono stati fatti sulla carta, a tavolino, dalle élite. Non hanno mai preso in considerazione il rapporto con la popolazione. Gli accordi di pace hanno bisogno (prima) di una cultura della pace, che cresca e si diffonda nelle scuole, nelle università, nei centri di studio, nei centri religiosi. Se firmiamo un accordo di pace, ma poi i grandi rabbini, i grandi imam e magari i grandi patriarchi parlano contro l’accordo di pace, quell’accordo non fa strada. Gli accordi hanno bisogno di un contesto religioso e culturale che fin qui non c’è stato. È uno dei motivi del loro fallimento. L’ho detto diverse volte: una pace ha bisogno di essere preparata e con tempi lunghi».
Betori si rifà nuovamente a La Pira, che diceva che la guerra è impossibile. Si esprimeva così negli anni in cui si affacciava sul mondo la minaccia nucleare (Hiroshima e Nagasaki erano traumi recentissimi – ndr). «La Pira diceva: “Se si facesse la guerra, arriveremmo ad usare l’arma atomica che ci distruggerebbe, quindi è impossibile fare la guerra”. Era il suo pensiero di allora, attualissimo ancor oggi in un’epoca in cui ricorriamo ad armi come i droni che uccidono altri per conto nostro, tenendoci al riparo dai rischi». Un’altra riflessione suggerisce Betori: «Pensiamo alla guerra come un modo per stabilire i confini. Lo vediamo: Putin per la Russia ne immagina alcuni, Zelensky per l’Ucraina ne immagina altri. Ma in realtà chi muore non sono i confini, sono le città. La Pira diceva: gli Stati, realtà astratte, possono anche fare le guerre, le città no, perché sono loro, come realtà concrete, a farne le spese. La guerra è la loro distruzione. Se questo è vero, logica vorrebbe che l’unica strada possibile, almeno per le città, è la pace. L’unica arma che ho in mano io, al momento, è la preghiera per la conversione dei cuori, che riporti la pace. Tutto questo non sta nella nostra forza. È speranza che affidiamo al Signore».
Gerusalemme e Firenze in un abbraccio virtuale
(g.s.) – Negli ultimi giorni d’aprile, a chi passa dalla Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, fra Matteo Brena, Commissario di Terra Santa per la Toscana, racconta più volte il percorso fatto con gli amici dell’associazione MUS.E per giungere a ideare la videoinstallazione Firenze e Gerusalemme. Un viaggio immersivo tra le due città per una visione di pace, del giovane regista Guglielmo Magagna.
Valentina Zucchi, di MUS.E, a sua volta spiega che «questo viaggio virtuale ci permette di andare nelle profondità della storia. La città di Firenze ha un rapporto plurimillenario con la città di Gerusalemme, “città madre” di tutte le città, come l’ha definita l’ex sindaco Mario Primicerio. (…) I rimandi da Firenze a Gerusalemme sono di antica data. Basti ricordare che ogni anno il fuoco della Veglia pasquale nel Duomo di Santa Maria del Fiore viene acceso con pietre focaie che sono schegge del Santo Sepolcro, portate – secondo la leggenda – dal crociato fiorentino Pazzino de’ Pazzi» (tradizione che non trova conferme storiche – ndr).
«I rimandi non si esauriscono qui – soggiunge Zucchi –. La suggestione profonda che viene dalla spiritualità di Gerusalemme informa la stessa geografia sacra di Firenze. Andando ad approfondire ci si accorge che queste due città dialogano da sempre. (…) Le città sono fatte non solo di belle architetture ma anche di persone, di tanti uomini e tante donne colti nella loro quotidianità da Magagna».
Partono le immagini, che si succedono per 15 minuti, proiettate da una batteria di videoproiettori (una decina) su tre delle quattro pareti dell’ampia sala. Solo una colonna sonora musicale e poche didascalie in italiano e inglese le introducono e concludono.
Il volto sorridente di Giorgio La Pira, dischiude il tema: «Ogni città ha una propria anima fatta dalle persone che ne hanno fatto la storia».
Poi è tutto un intrecciarsi di scorci di Firenze e di Gerusalemme. Si avvicendano primi piani di volti, riprese aeree di monumenti e panorami inquadrati dal drone, spazi sacri, luoghi di carità, di lavoro, di studio e di incontro che si assomigliano e richiamano, siano essi in Toscana o in Terra Santa.
«Prenditi il tuo tempo. Riduci le distanze. Immergiti in questo viaggio», è l’invito rivolto a fiorentini e turisti incuriositi dalla videoinstallazione.
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