A volte si ha la netta sensazione che gli estremisti palestinesi e israeliani, agendo gli uni contro gli altri, alla fine non facciano che fornire, gli uni agli altri, terreno fertile per affermarsi.
Più passano gli anni e più si ha la sensazione che «questo» Israele e «questo» Hamas abbiano bisogno l’uno dell’altro e che si combattano non tanto per sconfiggersi, quanto per restare in vita. Guardiamo a ciò che è successo nelle ultime settimane. Israele si dà un nuovo governo, guidato dall’eterno Benjamin “Bibi” Netanyahu. È il governo più a destra nella storia del Paese, che ha come ministro della Sicurezza nazionale (!) l’avvocato Itamar Ben Gvir, noto per aver assunto la difesa legale di molti cittadini israeliani accusati di violenze o attentati, uno che da ragazzo fu scartato alla leva per la sua già consistente fama di provocatore, uno che tiene in salotto la foto di Baruch Goldstein, l’assassino che nel 1994 uccise 29 musulmani e ne ferì altri 125 presso la Grotta di Macpela (o tomba dei Patriarchi) a Hebron. Un personaggio di tale fama che persino l’Unione europea, a cui non possono certo essere imputate particolari antipatie verso Israele, ha cancellato un evento previsto per il 9 maggio, Giornata dell’Europa, a causa della sua prevista, ma sgradita, presenza.
Essendo tale, il governo Netanyahu si impegna subito in una riforma della giustizia che ha il chiaro obiettivo di mettere la museruola alla magistratura e, soprattutto, alla Corte Suprema, che tante volte ha fatto da elemento moderatore nella politica nazionale. Gli anticorpi democratici di Israele reagiscono e per quindici settimane il Paese è scosso da proteste di intensità e dimensioni mai viste.
Le proteste si interrompono quando, ai primi di maggio, riprendono i raid israeliani su Gaza contro uomini del Jihad islamico, che rispondono lanciando razzi contro Israele. Riprende il consueto scambio di rappresaglie con vittime soprattutto palestinesi della Striscia, tra i quali alcuni bambini. Il Jihad promette vendetta, Israele sposta migliaia di civili dalle zone al confine con Gaza, i jihadisti sparano altre centinaia di razzi (per fortuna quasi sempre inefficienti) verso Tel Aviv, Sderot e le altre città israeliane più vicine. Israele reagisce ancora, e così via. Il Jihad islamico è il secondo movimento più seguito dai palestinesi della Striscia. Ma da quelle parti è Hamas ad avere il controllo assoluto, tanto che riesce incredibile che i jihadisti abbiano potuto condurre azioni di quella portata (sapendo che la reazione dello Stato ebraico sarebbe stata automatica e pesante) senza la licenza dello stesso Hamas. Tanto più che molti dei razzi sparati verso Israele sono del tipo Ayash, quello di solito usato nelle azioni militari di Hamas. Però gli uomini di Hamas non sono stati colpiti. Anzi: dopo i primi scontri, pare che gli israeliani abbiano fatto sapere a quelli di Hamas che non erano loro i bersagli bensì quelli del Jihad. Che stessero da parte e non sarebbero stati toccati. Un patto alla fine conveniente: Hamas titilla le pulsioni anti-israeliane dei palestinesi, facendo scontare le conseguenze ai rivali interni del Jihad islamico.
Può anche darsi che i nostri sospetti siano eccessivi. Diciamo pure che lo sono. È però indubbio che le pulsioni estremistiche di una parte trovano nutrimento e giustificazione in quelle dell’altra, in una spirale autoassolutoria che pare senza fine e che lentamente sta erodendo le fondamenta, e ancor più le speranze, dell’una e dell’altra società.