Una delegazione dell’Arabia Saudita è per la prima volta atterrata a Sana’a per aprire – il 9 aprile scorso – colloqui ufficiali e diretti con gli Houthi, la formazione yemenita filo-iraniana che, nel 2014, ha rovesciato il governo yemenita, spaccando in due il Paese. I punti in discussione.
Le cose cambiano con rapidità in Medio Oriente e spiragli di pace potrebbero aprirsi per lo Yemen, Paese distrutto e affamato da una guerra che dura da otto anni e che si porta dietro un bilancio provvisorio di 350mila morti, un numero incalcolabile di feriti e mutilati e un 80 per cento della popolazione (24 milioni di persone) che sopravvive solo grazie agli aiuti delle agenzie umanitarie.
Una delegazione dell’Arabia Saudita è per la prima volta atterrata ufficialmente a Sana’a, l’8 aprile scorso, per aprire colloqui diretti con gli Houthi, la formazione yemenita filo-iraniana che, nel 2014, aveva rovesciato il governo legittimo sostenuto da Riyadh, costringendolo a fuggire ad Aden. La guerra civile interna si era regionalizzata già nel 2015, con l’intervento dei sauditi a capo di una coalizione di Paesi arabi; i loro bombardamenti massicci e un embargo totale verso lo Yemen settentrionale (l’area sotto controllo Houthi) non sono però riusciti a modificare la situazione sul campo, né a riportare un governo amico nella capitale Sana’a. Anzi gli Houthi, sostenuti con armi e droni dall’Iran, hanno rafforzato le loro posizioni e sono riusciti a mettere in difficoltà l’Arabia Saudita e le sue infrastrutture petrolifere. L’incontro di Sana’a, preparato con la mediazione dell’Oman, è quanto di «più vicino ad una possibilità di pace duratura», ha affermato l’inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen, Hans Grundberg.
A stringersi la mano, nel palazzo presidenziale di Sana’a, sono stati – il 9 aprile – l’ambasciatore Muhammad al-Jaber, l’uomo di Riyadh in Yemen (Aden), e il capo politico houthi, Mahdi al-Mashat, su cui pende dal 2017 una taglia saudita di 5 milioni di dollari per terrorismo. Se colloqui sottotraccia ci sono stati anche in passato tra sauditi e Houthi, la forma ufficiale di questa tornata rappresenta una cesura. Per la cronaca, ad immortalare il cordiale saluto tra i due è stata l’agenzia cinese Xinhua. Oltre alla foto, c’è molto altro di cinese in quello che sta succedendo negli ultimi tempi in Medio Oriente. La diplomazia, a partire dallo Yemen, sembra aver ripreso forza, dopo l’accordo per il ripristino dei rapporti diplomatici e lo scambio di ambasciatori firmato a Pechino, il 10 marzo scorso, tra l’Iran e l’Arabia Saudita, i due grandi avversari regionali.
Nell’incontro di Sana’a, si è discusso di temi importanti e concreti, secondo quanto hanno fatto trapelare alcuni dei partecipanti: tra i punti affrontati, una nuova immediata tregua di 6-8 mesi (una riedizione più corposa del cessate il fuoco del 2022), il progressivo ritiro di tutte le truppe straniere dal Paese, e l’avvio, tra circa un anno, di una fase di transizione, che servirà alle parti per costruire un nuovo assetto statale post-bellico e a ridare ossigeno al sistema economico del Paese, distrutto dal conflitto.
Sul suo profilo Twitter, un dirigente houthi, Mohammed al-Bukhaiti ha aggiunto altri dettagli: si è parlato di limitare le restrizioni imposte ai porti yemeniti, per consentire l’arrivo di merci e beni di prima necessità e la ripresa dei commerci con il resto del mondo. Anche la riapertura dell’aeroporto internazionale di Sana’a è in agenda. Ciò consentirebbe, fra l’altro, a migliaia di persone di poter viaggiare per ricevere cure mediche adeguate. In una catastrofe umanitaria estremamente complessa, le misure economiche sono in primo piano. È necessario, scrive al-Bukhaiti, che l’Arabia Saudita convinca il governo di Aden a riprendere subito il pagamento degli stipendi di tutti gli impiegati pubblici, anche nello Yemen settentrionale. Da anni sono stati bloccati e per molte famiglie rappresentano l’unica forma di sostentamento. È uno degli elementi che ha portato l’80 per cento della popolazione a una dipendenza totale dagli aiuti internazionali.
All’incontro di Sana’a mancavano i rappresentanti del governo legittimo di Aden. Il ministro degli Esteri yemenita si è affrettato a chiarire che ci sono state consultazioni con i sauditi, che nessuno «è stato tagliato fuori» e che, anzi, gli ultimi sviluppi in Yemen dimostrano come «l’Iran stia abbandonando i suoi obiettivi espansionistici regionali». Per ora Aden sembra fare buon viso ad un gioco tutto saudita, ma gli obiettivi, tra tutore e tutelato, potrebbero presto divergere. Per Riyadh la priorità è adesso disimpegnarsi da una guerra troppo lunga, troppo costosa, negativa in termini di immagine e diventata ormai un peso nei nuovi piani economici e politici dell’erede al trono Mohammed Bin Salman.
Sul progetto saudita di spingere le parti ad un accordo, grazie alle potenti leve di cui dispone Riyadh per premere su Aden e dei buoni uffici iraniani presso gli Houthi, si sono già dichiarati favorevoli sia Teheran sia gli Emirati Arabi Uniti. Quest’ultimi, sin dal 2019, dopo dissidi e scontri con i loro alleati sauditi, hanno ritirato gran parte delle loro truppe dallo Yemen. Ad Aden, però, tra le file del governo legittimo si teme di essere abbandonati al proprio destino e che anni di combattimenti possano finire in una resa. Lo Yemen non rappresenta solo una guerra per procura, avverte Abdulghani al-Iryani del Centro per gli studi strategici di Sana’a. La situazione è molto più intricata. Negli ultimi anni si sono affermati gruppi, milizie armate locali (tra cui Al Qaeda nel Sud) che lottano per il potere e il controllo di risorse importanti, quali petrolio e gas. A ciò si aggiungono faide istituzionali. Le due banche centrali, di Aden e di Sana’a, gestiscono separatamente le loro politiche monetarie. Qualcuno già si chiede: con che tipo di banconote verranno pagati gli stipendi – se mai verranno pagati – degli impiegati pubblici nord-yemeniti?