Tra Russia ed Emirati Arabi Uniti i legami sono da tempo particolarmente profondi e complessi. I suoi frutti balzano all'occhio anche di un semplice turista a Dubai. Non stupisce quindi l'attuale posizionamento degli emiri, distanti dagli Usa, rispetto alla guerra in Ucraina.
Ci sono questioni grandi che si apprezzano anche con osservazioni spicciole. Sono stato di recente a Dubai, la città più grande degli Emirati Arabi Uniti (anche se la capitale è Abu Dhabi), dove ho scoperto un piccolo paradiso russo: alberghi e centri commerciali pieni di moscoviti e sanpietroburghesi; la Marina (il quartiere dei locali e degli yacht club, dove si dice che ci siano grossi investimenti russi), uno spazio in cui il russo risuona come una seconda lingua; signorine e matrone che sfoggiano parure e abitucci griffati nella vita notturna che si agita tra i grattacieli. Banalità da viaggio turistico o poco più, che consentono però di non stupirsi troppo quando, tra i documenti segreti che il Pentagono si è fatto da poco sfuggire, spuntano valutazioni statunitensi che pongono gli Emirati tra i porti franchi più usati dalla Russia accerchiata dalle sanzioni, oppure intercettazioni di agenti segreti russi che si vantano di aver convinto gli emiratini a mollare inglesi e americani. O quando il dipartimento del Tesoro americano, a proposito di sanzioni, mette nel mirino aziende hi-tech con sede negli Emirati, sospettate di contribuire allo sforzo bellico del Cremlino.
Tutto fa parte del terremoto politico scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina. Anche se tra Russia ed Emirati i legami sono particolarmente profondi e complessi. E sono resi tali da una sostanziale similarità di fondo. Il cuore del potere emiratino sta nel cosiddetto Bani Fatima, il gruppo dei sei figli di Fatima Bint Mubarak Al-Kitbi, madre di Mohammed bin Zayed, il maggiore dei sei nonché attuale emiro. Gli altri cinque sono Hamdan (presidente della compagnia petrolifera di Stato), Hazza (vice-presidente del Consiglio esecutivo di Abu Dhabi), Tahnoon (presidente del fondo sovrano nazionale), Mansour (vice-premier degli Emirati) e Abdullah (ministro degli Affari esteri). Bani Fatima significa quindi potere politico e ancor più potere economico, gestito attraverso una struttura che è insieme familistica e decentralizzata.
Più o meno la stessa cosa avviene in Russia, dove il governo è soprattutto incaricato del disbrigo degli affari correnti, mentre le iniziative strategiche sono quasi sempre portate avanti da quelli che potremmo chiamare i Bani Putin, i «figli di Putin», ovvero personaggi che possono essere interni alle istituzioni (nel caso degli Emirati, per esempio, Sergey Patrushev, il segretario del Consiglio di Sicurezza), mezzi interni (Mikhail Bogdanov, l’inviato speciale di Putin per il Medio Oriente) o totalmente esterni, ma con la fiducia del capo, come alcuni uomini d’affari diventati ricchi nel ventennio putiniano. Non è un caso se un recente rapporto pubblicato dal quotidiano francese Le Monde ha rivelato che almeno un centinaio di personaggi che ruotano intorno al Cremlino possiede proprietà immobiliari a Dubai.
La relazione tra i due gruppi di potere, quindi, è molto personalizzata, molto legata all’intesa tra i leader e i loro collaboratori. Lo si è visto bene nell’ottobre scorso, quando l’emiro Mohammed bin Zayed è volato a San Pietroburgo per un caloroso incontro con Vladimir Putin, proprio pochi giorni dopo che l’Opec+ (l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, che include la Russia) aveva tagliato la produzione di greggio, facendo quindi salire i prezzi nei Paesi più industrializzati. In quella stessa occasione, Putin aveva sottolineato che gli scambi commerciali tra Emirati e Russia erano cresciuti del 61 per cento nel 2021 e di circa il 20 per cento nel 2022. E a quanto abbiamo visto alla Marina di Dubai, il matrimonio (d’interesse) funziona sempre bene. Guerra o no.