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In Kurdistan accanto alle yazide sopravvissute all’Isis

Manuela Borraccino
28 aprile 2023
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«Bisogna prendersi cura delle donne vittime dei conflitti e inserire le esponenti dei movimenti femministi nei processi di pace per una effettiva e duratura pace e sicurezza», dice la psicologa Dildar Kaya, che opera sul campo in Iraq.


Quando quattro anni fa, a 25 anni, è tornata dalla Germania nel Kurdistan iracheno per prendersi cura della riabilitazione fisica e mentale di donne e bambini yazidi sopravvissuti alle violenze dello Stato islamico (Isis), Dildar Kaya aveva una laurea in Psicologia in tasca e un’esperienza di cooperazione allo sviluppo. Racconta: «Ho iniziato a lavorare in un campo profughi con circa tremila persone nei pressi di Duhok. Fra le temperature altissime, l’elettricità solo poche ore al giorno e il sovraffollamento, con circa 7-8 fra donne e bambini per ogni tenda, mi sono resa conto subito di quanto anche le condizioni logistiche non favorissero il recupero di queste persone. Eppure, a poco a poco, con l’aiuto degli operatori dell’équipe e del costante monitoraggio delle strategie utilizzate per far superare a donne e bambini i traumi che hanno subito, abbiamo cominciato a vedere graduali segni di ripresa».

Il progetto di assistenza legale e psicologica nel Kurdistan iracheno, dove più di seimila fra donne e bambini tra il 2014 e il 2017 sono stati ridotti in schiavitù dai miliziani del sedicente Stato islamico, è uno fra le decine di programmi di sviluppo incentrati sulle donne portati avanti dall’Iniziativa delle donne Nobel (Nobel’s Women Initiative, Nwi), fondata nel 2006 da sei donne premi Nobel per la pace fra le quali Shirin Ebadi e Tawakkol Karman.

La minoranza degli yazidi, che ha circa un milione e mezzo di membri fra Iraq, Siria, Turchia e Armenia, è stata fra le più colpite dalla violenza dell’Isis: secondo il rapporto stilato da Dildar, che fa anche parte del direttivo della Nwi, si calcola che 2.889 persone siano scomparse. Su 3.530 sopravvissuti alla riduzione in schiavitù e tornati nel Kurdistan iracheno, 1.197 erano donne e 1.038 ragazze minorenni. «In questi anni – racconta la psicologa – è nato un numero imprecisato di bambini frutto di violenze. Molte delle donne ridotte in schiavitù ci hanno ripetuto: “Tutte noi avremmo preferito morire, piuttosto che perdere dignità e onore”».

Oggi la sfida più importante, rimarca Dildar, è restituire la salute mentale a queste giovani donne traumatizzate, e lavorare in rete con le agenzie umanitarie dello sviluppo, con le autorità irachene e il governo autonomo del Kurdistan per offrire loro formazione e lavoro malgrado la grave crisi economica che affligge l’Iraq, la guerriglia in corso nelle aree del nord dell’Iraq e della Siria ancora sotto il controllo dell’Isis e un numero altissimo di profughi e sfollati interni. «Farle rientrare a casa ha salvato queste donne dalla tratta di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, dalla tortura e dalla cancellazione della loro identità culturale. Tuttavia – sottolinea la psicologa – hanno trovato una realtà ben diversa da quella che avevano lasciato: molte delle loro case e villaggi sono stati distrutti. Mentre altri membri delle loro famiglie sono morti o scomparsi, loro sono andate a vivere provvisoriamente in campi profughi. Intanto stanno ancora rielaborando le conseguenze fisiche e mentali degli anni passati in cattività. Molte hanno un debito con le loro famiglie che sono state costrette a pagare per sottrarle ai miliziani. Sono troppo grandi per tornare a scuola e imparare, ma, d’altra parte, senza formazione non hanno accesso al lavoro. C’è bisogno di tutti gli attori e di perseguire e far processare chi si è macchiato di questi crimini».

Il lavoro di cura della salute mentale e di sostegno psicosociale per le donne yazide portato avanti da Dildar mette insieme cooperazione allo sviluppo e diritti umani, ma soprattutto sviluppa i principi del femminismo intersezionale (contrasto alle discriminazioni multiple basate sul genere, etnia, religione) al centro dell’azione dell’Iniziativa delle donne Nobel e cruciali per chiunque oggi promuova i diritti delle donne in aree di conflitto. Lo conferma, tra l’altro, Silvia Abbà nel bel libro sui movimenti femministi in Iraq: «La violenza atroce commessa dall’Isis nei confronti della comunità ezida (o yazida – ndr), con il suo intento genocidiale ha fatto sì che molte donne acquisissero una forma rinnovata di consapevolezza sia a livello personale che comunitario, sia attraverso pratiche di resistenza messe in campo in spazi ristretti sia in termini di capacità di dare senso a esperienze brutali, creando forme di coscienza politica anche femminista».

Di tutto questo si è parlato, tra l’altro, anche alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco, nella quale una delegazione della Nwi guidata dalla Premio Nobel liberiana Leymah Gbowee e della quale faceva parte anche Dildar Kaya è intervenuta in un panel dal titolo Contro l’illegalità: assicurare alla giustizia i criminali. «La militarizzazione dell’approccio alla pace e alla sicurezza – chiosa Dildar – mostra tutti i suoi limiti: i conflitti in corso, non solo in Ucraina, dimostrano che non è con le armi che possiamo costruire un mondo più giusto e pacifico. Far sentire la voce delle donne, soprattutto del Sud del mondo, è indispensabile per ottenere quella efficacia nei processi di risoluzione pacifica dei conflitti che solo può garantire la stabilità e la sicurezza».

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