(g.s.) – Si intitola Camminare insieme. I cattolici con gli ebrei nel contesto australiano il documento che la Conferenza episcopale australiana ha reso pubblico il 21 marzo scorso. Tocca almeno quattro questioni chiave e ai connazionali ebrei è piaciuto, ma con riserva.
Il testo è indirizzato ai cattolici del vasto Paese dell’emisfero sud, vale a dire poco più di 5 milioni di fedeli, un quinto della popolazione. Arriva una trentina d’anni dopo le linee guida sul tema varate nel 1992 e affonda le radici, inevitabilmente, in quello spartiacque che fu, nel 1965, il punto 4 della dichiarazione Nostra aetate, frutto del concilio ecumenico Vaticano II.
Monsignor Michael McKenna, vescovo di Bathurst e presidente della Commissione episcopale per l’unità dei cristiani e il dialogo interreligioso, ha osservato che il nuovo documento «punta ad aiutare i cattolici a comprendere più profondamente l’unicità del nostro rapporto con l’ebraismo». Segno che c’è ancora strada da fare, e probabilmente non solo in Australia…
Il discorso è proposto in modo stringato – otto pagine in tutto – e tocca alcune questioni decisive. Vediamole insieme.
• Una relazione come nessun’altra
Proprio perché Gesù, sua madre Maria e i primi discepoli erano ebrei, le radici di noi cristiani affondano nel giudaismo, dichiara subito il documento, che soggiunge: «Per via di questo stretto legame, la comprensione che la Chiesa ha di sé fa riferimento in modo permanente e intrinseco al giudaismo. Perciò i cristiani devono essere naturalmente attenti all’esperienza ebraica e desiderosi di cooperare con gli ebrei nel realizzare il regno di Dio».
Del resto i legami si radicano nella Bibbia. Nella Torah (il Pentateuco), ma non solo: «Anche i libri che non sono inclusi nella Bibbia ebraica provengono da un contesto giudaico o greco-giudaico. (…) Sia i cristiani sia gli ebrei hanno la propria tradizione di interpretazione e applicazione [delle Scritture]. Possiamo imparare molto dalle tradizioni degli uni e degli altri».
• L’antisemitismo
Il fenomeno dell’antisemitismo è in crescita in tutto il mondo, Australia inclusa. «È esacerbato da tensioni politiche», osservano i vescovi, che si dicono preoccupati «per i livelli crescenti di ignoranza, e persino di negazione, dell’Olocausto», la tragedia che nel secolo scorso ha anche indotto a rimodellare la riflessione teologica cristiana.
Essenziale il passaggio successivo, che ribadisce un principio ormai assodato nel Magistero e nella teologia cattolica post-conciliare: «Un’espressione teologica dell’antisemitismo è il supersessionismo. Questo costrutto teologico concepisce il giudaismo come sostituito dagli insegnamenti di Gesù e della Chiesa. Nasce da una falsa comprensione del Nuovo Testamento e da una mancanza di apprezzamento dell’ebraicità di Gesù. La Chiesa cattolica non insegna più, e non suggerisce nemmeno, che Israele sia stato sostituito dalla Chiesa; riconosce la continuità della vita vibrante dell’ebraismo oggi e riconosce che l’alleanza di Dio con Israele continua ad essere forte e vivificante».
• Evangelizzazione, non proselitismo
Quanto appena detto ha conseguenze anche sul versante dell’evangelizzazione. La Chiesa ormai ha imparato a distinguerla dal proselitismo. Recita il documento dei vescovi australiani: «In generale, l’evangelizzazione è l’annuncio della buona novella di Gesù ed è la missione da lui affidata alla sua Chiesa». Una missione da adempiere «sempre nel rispetto della dignità delle coscienze umane. Qualsiasi tentativo di imporre, indurre o addirittura costringere sarebbe una contraddizione della vera evangelizzazione. Tali attività, talvolta descritte come “proselitismo”, hanno guastato la storia cristiana del passato e noi le rifiutiamo».
Posto che essi già credono nell’unico Dio, «la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei», come già ha puntualizzato il n. 40 del documento Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di Nostra ætate (n. 4), pubblicato dalla Commissione (vaticana) per i rapporti religiosi con l’ebraismo il 10 dicembre 2015.
• La relazione di Gesù con il giudaismo e i farisei
«Gesù era ebreo ed è stato formato dalla sua fede ebraica», sottolinea il documento. Di più: la sua predicazione non era poi così distante dalla sensibilità dei farisei.
Dice il testo australiano: «La preoccupazione di Gesù era quella di rinnovare la fede ebraica del suo popolo, in particolare il suo essere amato dal Dio rivelato nella Torah».
«Questa convinzione – si rimarca – lo allineava anche ai Farisei, un movimento di rinnovamento religioso incentrato sulla vita spirituale della famiglia. I ritratti successivi dei farisei fatti dagli evangelisti non sono storicamente accurati. Nei Vangeli, i farisei sono rappresentati come antagonisti di Gesù che si oppongono al suo insegnamento. Gesù li critica. Nel Vangelo di Giovanni, dice che il loro padre è il diavolo (Gv 8,44). Questo ritratto evangelico negativo dei farisei non riflette la loro situazione reale al tempo di Gesù».
In realtà, «Gesù e i farisei erano impegnati a rinnovare il popolo ebraico nel suo rapporto con Dio».
Detto questo, i vescovi australiani si augurano che «le celebrazioni liturgiche cattoliche evitino gli stereotipi negativi sugli ebrei e sull’ebraismo». Ed è solo una delle cose da correggere nella prassi pastorale della Chiesa. Si auspica pure che «ebrei e cattolici condividano l’impegno per la giustizia e camminino insieme per la pace e l’armonia nella società»; che, «laddove è possibile, studino insieme le Scritture», pur onorando le loro differenze, e che «i testi catechistici cattolici e gli altri mezzi di comunicazione siano costantemente aggiornati alla luce delle ultime ricerche bibliche e storiche».
La soddisfazione, non piena, degli ebrei australiani
Secondo la presidente del Consiglio esecutivo dell’ebraismo australiano, Jillian Segal, molto del nuovo documento «è degno di nota e attuale». Restano in campo, tuttavia, almeno un paio di riserve, espresse con la franchezza che caratterizza il dialogo ebraico-cristiano negli ultimi decenni.
Pur condannando opportunamente l’antisemitismo – si rammarica Segal – «il documento non compie il logico passo successivo, come avremmo sperato, riconoscendo che l’antisemitismo contemporaneo ha preso in prestito tropi antiebraici con motivi religiosi, presumibilmente cristiani, e li ha utilizzati contro gli ebrei in modi nuovi, a volte con conseguenze altrettanto letali». In altri termini non si è riconosciuto che l’antisemitismo si è nutrito anche di elementi già espressi in secoli di antigiudaismo cristiano.
Osserva infine la rappresentante dell’ebraismo australiano: «Camminare insieme usa la parola “Israele” solo in riferimento al popolo ebraico. Eppure uno degli eventi fondamentali nelle relazioni cattolico-ebraiche degli ultimi trent’anni è stato il riconoscimento formale dello Stato di Israele da parte del Vaticano nel 1993. (…) Sappiamo che Israele è un argomento sensibile per la Chiesa cattolica, soprattutto per la vulnerabilità delle comunità cristiane minoritarie in Medio Oriente. Eppure già nel 1985 un documento vaticano ricordava ai cattolici che: “Il permanere di Israele (laddove tanti antichi popoli sono scomparsi senza lasciare traccia), è un fatto storico e segno da interpretare nel piano di Dio” (cfr. Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, pubblicati dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo – ndr)».
«Camminare insieme – conclude Jillian Segal – riconosce la continua validità dell’alleanza di Dio con il popolo ebraico, ma sembra eludere il fatto che quell’alleanza lega insieme il D-o d’Israele, la Terra d’Israele e il popolo ebraico. Anche le Linee guida del 1992 riconoscevano il legame del popolo ebraico con la Terra d’Israele. Ci rammarichiamo per l’omissione di qualsiasi riferimento in Camminare insieme, ma forse la prossima versione del documento lo incorporerà».
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