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Israele e Palestina alla deriva?

Fulvio Scaglione
8 marzo 2023
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Vari elementi, negli ultimi tempi, alimentano l'impressione di una deriva di Israele, perfettamente parallela a quella della dirigenza palestinese. Il travaglio di due popoli incapaci di trovare una rotta sicura.


Ha da poco compiuto tre anni il famoso (o famigerato, a seconda delle prospettive) Accordo del secolo, il piano presentato dall’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump (ma elaborato dal genero Jared Kushner) per risolvere una volta per tutte il conflitto tra israeliani e palestinesi… L’Accordo, nemmeno discusso dai palestinesi che avevano rotto le relazioni con gli Usa dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump, in realtà era tutt’altro che obiettivo e prevedeva grosse concessioni per lo Stato ebraico: nasceva uno Stato palestinese ma completamente smilitarizzato; blocco per quattro anni degli insediamenti, ma riconoscimento di quelli già esistenti, non più colonie ma parte integrante dello Stato di Israele; sovranità di Israele sulla valle del Giordano; Gerusalemme capitale. Ai palestinesi, la promessa di investimenti per 50 miliardi di dollari da parte di «Paesi desiderosi di investire», ma non meglio identificati.

Tre anni dopo, al netto di una serie di considerazioni più che legittime e certo influenti (per esempio il disgelo tra Israele e le petromonarchie del Golfo Persico, la cronica incapacità dei palestinesi di unirsi e capire che la scelta delle armi volge sempre a loro svantaggio, la mediocrità delle reciproche classi dirigenti, e così via), e mentre la violenza imperversa in un inizio d’anno che minaccia un 2023 ancor più sanguinoso del 2022, c’è una domanda che non si può più evitare: quanto ci si può fidare di Israele? Domanda doverosa, tanto più quando ci ripetiamo che «Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente», definizione che al più indica una scelta di campo, non certo la soluzione di tutti i problemi.

La domanda non riguarda questo o quel leader, questo o quel partito, ma l’anima stessa del Paese. Che infatti, proprio in questi giorni, affida all’esercito il confronto cruento con i palestinesi, ma poi si divide su un progetto di riforma della Giustizia che vuole limitare l’autonomia della Corte Suprema, per lunghi anni camera di compensazione di molti eccessi, e dei giudici ordinari, subordinandoli al potere politico. Parte consistente del Paese lo considera un attentato alla democrazia, e i palestinesi non c’entrano proprio. E questo dopo una fase in cui, in tre anni e mezzo, si è andati cinque volte alle elezioni politiche.

Si può benissimo capire il travaglio di un Paese circondato da vicini ostili e spesso aggredito (ma dovrebbe essere compreso anche quello dei palestinesi, vittime dell’occupazione). Resta però il fatto che la deriva di Israele (perfettamente parallela, anche qui, a quella della dirigenza palestinese) è sotto gli occhi di tutti.

A posteriori, possiamo individuare due fattori che hanno lavorato per portare Israele nelle condizioni attuali. Il primo è stato il mito prepolitico della terra, che i politici hanno usato per accontentare frange della popolazione (i cosiddetti «coloni») che ora sono diventate l’ago della bilancia nelle scelte dei governi. Nessun governo israeliano ha mai davvero cercato di frenare il fenomeno. Anzi: dal 1973 ad oggi la popolazione degli insediamenti è sempre cresciuta, persino nei centri delle Alture del Golan siriane.

Il secondo fattore, correlato al primo, è l’ossessione demografica, con il timore del «sorpasso» palestinese. Il tempo ha mostrato che la minoranza araba israeliana (circa il 20 per cento della popolazione) è destinata a rimanere tale e che il tasso di natalità degli arabi è più che compensato da quello degli ebrei ultraortodossi, che ora sono circa il 10 per cento della popolazione ma il cui tasso di accrescimento è del 4 per cento l’anno. Aggiungiamo ondate di immigrazione (per esempio quella dei primi anni Novanta dopo il crollo dell’Unione Sovietica) che hanno rimediato a quella ossessione, ma di certo hanno tolto coesione (si calcola che siano arrivati allora circa 300 mila ebrei per parte di padre, cioè finti ebrei), ed eccoci alla situazione attuale.

Impossibile negare che tutto questo abbia creato scompensi in una società nata laica e dove ancora oggi il 45,3 per cento della popolazione tale si definisce. La sensazione complessiva è che, nel complesso, Israele oggi viva alla giornata, senza un coerente progetto per il futuro. E non è una buona notizia, nemmeno per i palestinesi.

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