Ne è convinto l'ex capo dello Stato Reuven Rivlin. La grave crisi politica di questi primi mesi del 2023 – dice – dimostra la necessità di rimescolare le carte e rifondare Israele sulla base di un nuovo, e più inclusivo, patto sociale.
Un mese di pausa. Il tempo per provare a far scendere la tensione nel Paese e (intanto) far approvare dalla propria maggioranza senza scossoni la legge di bilancio, senza la quale il sesto governo Netanyahu – riforma della giustizia, oppure no – cadrebbe comunque.
Alla fine delle lunghe ore di tensione seguite al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, il 26 marzo scorso, e all’immediato sciopero generale proclamato come risposta nel Paese, il primo ministro ha scelto di alzare il piede dall’acceleratore nello show-down delle ultime settimane. Lo ha fatto ampiamente in ritardo, con i suoi alleati dell’ultra-destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir che lo spingevano invece ad «andare fino in fondo».
Per uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato, il premier ha dovuto pagare al secondo – l’aizzatore dei coloni ora ministro della Sicurezza nazionale – un ulteriore prezzo pesante: il via libera all’istituzione di una Guardia nazionale di 2mila uomini alle sue dirette dipendenze. Una novità che non solo gli arabi, ma anche l’esercito israeliano – fortemente protagonista con i suoi riservisti nelle proteste di queste settimane – vedrà come ulteriore fumo negli occhi.
Netanyahu, però, intanto guadagna tempo, che è poi la sua specialità. E spera che il periodo tra l’ormai imminente festa di Pesach e il giorno dell’Indipendenza (che quest’anno in Israele cade a fine aprile) faccia perdere all’opposizione di piazza il suo momento favorevole. Magari augurandosi anche che quel “compromesso” invocato da settimane dal presidente Isaac Herzog sulla riforma della giustizia e da lui finora sonoramente respinto al mittente, alla fine si materializzi davvero, togliendogli per l’ennesima volta le castagne dal fuoco.
Succederà? In questo momento appare abbastanza improbabile, soprattutto per i rapporti di forza reali all’interno della maggioranza che sostiene Benjamin Netanyahu. Coltivando Smotrich e Ben Gvir nelle elezioni dello scorso 1 novembre Bibi si è garantito quei 30mila voti di differenza che gli hanno permesso di raggranellare al quinto tentativo in quattro anni una maggioranza alla Knesset. Per prenderli, però, ha firmato cambiali pesanti che Washington – l’alleato imprescindibile – guarda con sempre maggiore irritazione. E non è un caso che nel confronto caldissimo di questi giorni l’antagonista vero di Netanyahu non sia tanto Yair Lapid – in teoria il leader dell’opposizione – ma il più “rassicurante” Benny Gantz, l’ex generale che nell’eterno ritorno della politica israeliana oggi i sondaggi danno in forte ascesa.
Ma è davvero solo uno scontro su Netanyahu quello in corso oggi in Israele? Probabilmente no. E a sottolinearlo in maniera molto lucida, in questi giorni, è stato un intervento di quello che – ancora più della Corte suprema – negli ultimi anni è stato il contrappeso vero di re Bibi: il (popolarissimo) ex capo dello Stato Reuven Rivlin. Anch’egli uomo del Likud, ma portatore di una visione opposta rispetto al divide et impera che da vent’anni, ormai, è la cifra politica dell’attuale premier di Israele.
Con un’intervista rilasciata al quotidiano The Jerusalem Post domenica scorsa – prima ancora degli ultimi sviluppi – l’83enne Rivlin ha detto senza mezzi termini di essere pronto a scendere in piazza anche lui se lo scontro dovesse proseguire. Ma, soprattutto, l’ex presidente ha detto un’altra cosa: nella situazione attuale non basta un mero compromesso (come invece sembra cercare il suo successore Herzog). Un esito del genere per Rivlin addirittura «indebolirebbe la democrazia».
Precisa di non essere contrario a una riforma della giustizia, a patto che sia ancorata a una Basic Law (le leggi che in Israele hanno un rango costituzionale) che «definisca con chiarezza i confini tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, perché altrimenti non c’è democrazia». Il punto vero per lui è, però, un altro: «Dobbiamo decidere una volta per tutte il carattere della nostra nazione». E per farlo rilancia l’idea che ha ripetuto più volte durante la sua presidenza: trovare un punto di unità tra quelle che definiva le «quattro tribù» dell’Israele di oggi e cioè gli arabi israeliani, gli ultra-ortodossi, i religiosi sionisti e il mondo laico israeliano. Quattro gruppi a cui oggi ne aggiunge anche un quinto: i cosiddetti «yordim», cioè i cittadini israeliani che vivono all’estero e che in queste settimane forse per la prima volta stanno facendo sentire con forza la propria opinione.
Non un piccolo compromesso, dunque, ma una rifondazione di Israele, basata sul riconoscimento di tutte le tribù, compreso il 20 per cento costituito dagli arabi israeliani. Netanyahu ha costruito tutta la sua fortuna politica sull’alleanza con due di queste tribù: gli ultra-ortodossi e i religiosi sionisti. Lapid ha puntato sulla rivincita delle altre tre tribù, illudendosi che Tel Aviv e Haifa possano stare senza Gerusalemme. Il risultato è la spaccatura del Paese a metà, certificata dalle ultime cinque elezioni e adesso approdata anche nelle piazze. Israele ne uscirà solo il giorno in cui avrà il coraggio di rimescolare le carte. Guardandosi allo specchio e decidendo che cosa vuole essere davvero.
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