Sotto il tendone bianco dell’«Avamposto della democrazia», la squadra mattutina ha una missione: montare i grandi pannelli di legno con gli slogan del movimento. «Dobbiamo resistere», «Fratelli d’armi per la democrazia»… I volontari sono ex riservisti dell’esercito israeliano. Si alternano quotidianamente ogni due ore per garantire una presenza, aprire uno spazio di dialogo, mantenere la pressione…
A Gerusalemme la posizione dell’«Avamposto» è strategica. Dall’altra parte della strada ci sono gli uffici del Primo ministro. A sinistra, la Knesset, il parlamento israeliano. A destra, la Corte Suprema. Istituzioni al centro del progetto di revisione del sistema giudiziario, portato avanti da un Benjamin Netanyahu, ansioso di districarsi dal processo per corruzione in cui è coinvolto. «Con la nostra presenza – spiega Gonen, uno dei quattro volontari il 14 marzo – ricordiamo al governo che siamo contrari a questo progetto. È un colpo di Stato che ucciderà il regime democratico israeliano e i valori fondamentali del nostro Paese».
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Atletico e dagli occhi chiari, sulla quarantina, Gonen ha completato il suo servizio militare di tre anni nei paracadutisti, una delle unità di fanteria d’élite di Israele. Come molti, ha poi prestato servizio nella riserva. L’esercito regolare israeliano dispone solo di un contingente relativamente piccolo (161mila soldati), quindi il suo funzionamento dipende in gran parte dai riservisti (425mila), che devono addestrarsi regolarmente.
Per quasi 25 anni Gonen ha quindi ripreso in mano le armi ogni anno, durante operazioni sul campo che potevano durare fino a due mesi. Per tre volte è stato chiamato alla mobilitazione immediata. Fu durante la guerra del Libano. Se oggi non è più un riservista, ma lavora nel mondo della tecnologia, si presenta come un privato cittadino: «In Israele l’esercito è il popolo. Tutti hanno svolto il servizio militare. Abbiamo combattuto per questo Paese, ora combattiamo per la sua anima», dice, parafrasando uno degli slogan di questo movimento in crescita.
«Operazione Netanyahu»
Lanciato a fine febbraio da Royi Elcabets, presidente del partito Yesh Atid a Tel Aviv e generale di brigata della riserva, l’«Avamposto della democrazia» è solo una delle tante iniziative che stanno mobilitando i riservisti in maniera che non ha precedenti. Mercoledì 15 marzo i veterani dell’Operazione Entebbe hanno manifestato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, mentre Binjamin Netanyahu partiva per Berlino.
Si tratta degli ex soldati che aiutarono a salvare 247 passeggeri di un aereo che volava da Tel Aviv a Parigi, dirottato nel 1976 da terroristi palestinesi e tedeschi a Entebbe, in Uganda. L’operazione ebbe successo, ma lasciò dietro di sé quattro vittime: tre ostaggi e il tenente colonnello Yonathan Netanyahu, fratello dell’attuale Primo ministro.
È fortemente simbolico che i veterani di questa operazione si uniscano al blocco dell’aeroporto. E non hanno lesinato sul decoro della loro «Operazione Netanyahu». Il loro convoglio era guidato da una vecchia Mercedes nera, una replica dell’auto ufficiale del dittatore ugandese Idi Amin che i commando israeliani usarono nella notte fra il 3 e il 4 luglio 1976 per raggiungere il velivolo dirottato. Sui loro cartelli, un ritratto di Yonathan Netanyahu, accompagnato da queste parole: «Yoni si è sacrificato per il Paese. Bibi sacrifica il Paese per se stesso», o «Yoni si vergogna».
Settimana dopo settimana si moltiplicano le lettere aperte firmate dai veterani delle unità d’élite dell’esercito israeliano: i Golani, la marina israeliana, la brigata Nahal, o ancora i paracadutisti o l’unità di ricognizione Maglan… Il sito Miluim Nikim (La protesta della riserva) ne elenca 23. In ogni petizione emerge la stessa preoccupazione, «il rischio di una dittatura», e le stesse ricchieste: «lo stop al processo legislativo», «il dialogo tra tutte le componenti del Paese».
Effetto valanga
Oltre a moltiplicarsi nelle ultime due settimane, le lettere aperte sono talvolta accompagnate da minacce. Mercoledì 15 marzo, quasi tutti i riservisti di uno squadrone dell’aeronautica hanno annunciato che si sarebbero rifiutati di addestrarsi per protestare contro la riforma giudiziaria, prima di fare alla fine marcia indietro. Pochi giorni prima di loro, erano stati i riservisti dell’unità scelta dell’intelligence 8200 a dichiarare che non si sarebbero presentati al loro posto.
Ci sono sempre periodiche manifestazioni di dissenso in Israele: soldati che si sono rifiutati di prestare servizio in Libano, altri che si sono rifiutati di prestare servizio in Cisgiordania, e ogni anno una manciata di adolescenti preferisce rimanere in prigione come obiettori di coscienza piuttosto che prestare servizio in un «esercito di occupazione». Ma gli ultimi appelli a rifiutare di servire hanno un sapore diverso. Meno elitari, più popolari. Senza una leadership. L’alto comando teme un effetto valanga, che «indebolirebbe le capacità operative dell’esercito», secondo il capo di Stato maggiore Herzi Halevi. «Questa è una vera minaccia per la sicurezza di Israele», ha avvertito martedì il ministro della Difesa Yoav Galant, promettendo di reprimere il fenomeno.
Allo stesso tempo, la protesta dei cittadini continua a crescere. Se i quattro volontari che assicurano la permanenza nella tenda bianca dell’«Avamposto della democrazia» vengono a dare qui una mano per la prima volta, sono però in strada ogni sabato da dieci settimane. La manifestazione dell’11 marzo ha visto quasi 300mila persone riversarsi sulle strade delle principali città del Paese (mezzo milione, secondo gli organizzatori). Numeri mai visti prima. In meno di tre mesi, il movimento contro la riforma giudiziaria è diventato il più grande nella storia di Israele.