Il celebre scrittore francese viaggiò a Gerusalemme, con l'amico Maxime Du Camp a metà dell'Ottocento. Il suo diario di viaggio fu quindi pubblicato per intero solo postumo, nel 1910, con il titolo di Voyage en Orient.
«Dato che è necessario per la tua salute, parti pure con il tuo amico Maxime, ti do il mio permesso», sembra che abbia detto madame Flaubert al figlio, con un’espressione più glaciale del solito, nel 1849, facendolo arrossire per l’emozione.
Lo racconta nei suoi Souvenirs littéraires Maxime Du Camp (1822-1894), il suddetto amico, che da anni insisteva per portare Gustave a esplorare quello che allora veniva detto «Oriente». La madre aveva sempre preferito tenerlo al sicuro nella piccola Croisset, sulle rive della Senna, anche per via delle «crisi nervose» di cui soffriva. Per farle cambiare idea ci volle il dottor Jules Cloquet, che consigliò a Gustave, per curare il suo malanno, di cambiare completamente aria: grazie a lui il futuro scrittore partì in compagnia di Maxime per un viaggio di diciannove mesi tra Egitto, Palestina, Grecia, Asia Minore e Costantinopoli.
Entrambi benestanti e alle soglie della trentina, i due amici non avevano ancora combinato molto nella vita: Gustave, sempre a causa delle sue «crisi nervose», nel 1844 aveva abbandonato gli odiati studi di legge, mentre nello stesso periodo Maxime aveva fatto un primo lungo viaggio in Europa e Oriente del quale aveva pubblicato un resoconto; al ritorno dal grand tour con Flaubert ne avrebbe dato alle stampe un altro. Gustave invece non si sognava affatto di scrivere letteratura di viaggio, mostrando un certo disprezzo per il genere, che riteneva troppo «facile» e «pretenzioso».
Il suo diario di viaggio fu quindi pubblicato per intero solo postumo, nel 1910, con il titolo di Voyage en Orient, e contiene anche diverse pagine sul soggiorno in Palestina. A differenza di altre parti del testo, che furono rielaborate dallo scrittore dopo il suo ritorno, il resoconto dell’esperienza in Terra Santa è costituito dalle note prese telegraficamente durante le pause del viaggio; l’unico aneddoto, raccontato in modo narrativo e con dovizia di particolari, è la sparatoria di cui furono vittime Flaubert e i suoi compagni mentre viaggiavano a cavallo dal monastero di Mar Saba verso Gerusalemme: «Sento un colpo di fucile (e ancora non mi viene in mente che ci sia un pericolo). Max si volta, intravede un uomo che ci prende di mira e mi grida allora con una faccia espressiva: “Ci tirano addosso, andiamocene, per l’amor di Dio!”».
Per fortuna Flaubert sopravvisse all’esperienza per poi diventare il grande scrittore che conosciamo e, secondo alcuni studiosi, fu proprio durante questo viaggio avventuroso che imparò a coltivare quello sguardo distaccato che in seguito sarebbe diventato la sua marca stilistica: l’assenza di giudizio, l’impersonalità narrativa. Questo aspetto risulta evidente se si confrontano i diari dei due amici: laddove Du Camp fa osservazioni sprezzanti (ma all’epoca largamente condivise dagli occidentali) su vari aspetti delle culture incontrate, Flaubert descrive invece eventi, mentalità e usanze tentando di chiarirne la logica intrinseca. Pochi anni dopo lo scrittore riversò l’esperienza fatta in «Oriente» nel romanzo Salammbô, ambientato nell’antica Cartagine. Per documentarsi ulteriormente prima della sua stesura, nel 1858 fece il secondo e ultimo grande viaggio della sua vita, in Algeria e Tunisia, senza mai diventare un «orientalista» a pieno titolo: secondo la definizione che lui stesso aveva dato di questo termine nel divertente Dizionario dei luoghi comuni, l’orientalista è infatti un «uomo che ha viaggiato molto».
(Coautrice di queste righe è Alessandra Repossi)