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In Iran calano le proteste, ma non il malessere

Manuela Borraccino
9 febbraio 2023
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Crisi economica, spontaneismo, mancanza di leadership, assenza di alternative: dopo cinque mesi di manifestazioni, calano le proteste ma non la profondità del malessere fra società e Stato in Iran. È il lungo tramonto ma non la fine della Repubblica islamica, si legge su Foreign Affairs.


Le proteste in Iran vanno perdendo vigore nelle ultime settimane. Dopo la morte violenta di Mahsa Amini e la mobilitazione di centinaia di migliaia di donne non solo sulla questione simbolica del velo, quattro mesi di manifestazioni in almeno 160 città iraniane hanno causato secondo l’organizzazione iraniana Attivisti per i diritti umani (Human Rights Activists) la morte di oltre 500 persone, fra i quali 60 minorenni, mutilazioni e gravi ferite su centinaia di manifestanti resi ciechi dai proiettili di gomma sparati mirando agli occhi, l’esecuzione di almeno quattro arrestati dopo confessioni estorte e processi farsa. Considerato, però, che tutte le proteste recenti e passate contro la Repubblica islamica sono finite nel sangue, il timore è che questa possa essere «un’altra occasione mancata, un’altra mancata svolta nella storia iraniana». Lo scrive il politologo con doppia cittadinanza, iraniana e statunitense, Ali Vaez in un lungo articolo su Foreign Affairs. Il regime è diventato in effetti ancora più intransigente, gli fa eco, sulla stessa pubblicazione, l’analista Vali Nasr.

L’Iran oggi come l’Urss negli anni Ottanta

Secondo Vaez, direttore del dipartimento sull’Iran dell’International Crisis Group, uno dei principali think tank internazionali sulle aree di crisi del mondo, l’Iran si trova oggi al punto in cui si trovava l’Unione sovietica all’inizio degli anni Ottanta. «Il sistema si trova al collasso ideologico, ad un punto morto politico, incapace di dare risposte ai problemi sociali ed economici. Ha ancora la voglia di lottare, com’è parso evidente dalla brutale risposta nelle rivolte. Ma nessuna forza potrà porre fine alla situazione di stallo con il suo popolo, che è soprattutto il risultato dei fallimenti su tutta la linea del regime».

Il fallimento delle promesse del 1979

Poco o nulla è rimasto delle promesse della Rivoluzione khomeinista del 1979, mentre si è allargato il divario fra l’establishment e il popolo. Nel 1976 l’Iran aveva 34 milioni di abitanti, dei quali più della metà abitava in zone rurali. Oggi gli iraniani sono più di 80 milioni, il 75 per cento dei quali vive nelle città. Nel 1976 c’era solo uno studente universitario ogni 230mila abitanti; attualmente ce n’è uno ogni 20. Oggi più della metà dei laureati sono donne, ma il loro tasso di disoccupazione è il doppio di quello maschile. «Questa popolazione giovane e assai più scolarizzata delle precedenti vive condizioni durissime di vita a causa della pessima gestione pubblica, corruzione dilagante, sanzioni dall’estero: un iraniano su cinque si trova sotto la soglia della povertà», osserva Vaez.

La rivolta più ampia e prolungata

Un recente sondaggio governativo ha mostrato che l’83 per cento degli iraniani è insoddisfatto della propria qualità di vita, ma questo «non ha portato il regime né a liberalizzare l’economia come avvenuto in Cina negli scorsi decenni, né a qualche riforma sociale di facciata come sta tentando di fare l’Arabia saudita pur di distrarre l’attenzione del popolo dal malessere economico e dalla repressione politica». L’85 per cento degli universitari dichiara di voler emigrare: nei mesi scorsi qualcuno ha scritto su un muro: «Non abbiamo nulla da perdere, se non le nostre catene». Benché sempre più deboli e sparpagliate di fronte alla repressione della polizia, le rivolte hanno posto la sfida più vasta e potente al regime negli ultimi 43 anni.

Un popolo, quattro componenti

Oggi, rimarca ancora Vaez, gli iraniani possono essere divisi in quattro grandi gruppi.

Primo: i rivoluzionari – la maggior parte dei quali ha meno di 25 anni – che, a differenza dei loro genitori e nonni, hanno gettato alle ortiche prudenza e pazienza e sembrano non aver alcun timore dei famigerati apparati di sicurezza iraniani. Ma il loro movimento «spontaneo, privo di leader, sparpagliato, informe» per le forze del regime è risultato «facile da sbaragliare come un flipper».

Nel secondo gruppo troviamo persone della classe media e di mezza età che simpatizzano per i giovani ma non si sono mobilitate perché nutrono scarse aspettative su cambi sostanziali in assenza di alternative praticabili: dopo anni di malagestione e sanzioni, non può permettersi un confronto costoso e prolungato con lo Stato. «Questo gruppo è quello che il regime teme di più. Se le proteste non raggiungono una massa critica e non sviluppano una visione per il futuro, è improbabile che la massa silenziosa si unisca alle proteste. Ma raggiungere quella soglia è impossibile se questa componente non si aggiunge».

Terzo: i custodi del regime, l’élite che ha tutto l’interesse a prolungare lo status quo, «con gravi rischi che, benché in minoranza, il loro eventuale ricorso alla violenza in difesa del sistema provochi una guerra tra diversi ceti iraniani».

Al quarto posto ci sono gli iraniani della diaspora, che hanno sostenuto le proteste non senza creare divisioni e intolleranza nell’opposizione in esilio e mentre gli unici a rischiare realmente la vita sono gli iraniani in patria. Tra i negoziati sul nucleare, le divisioni fra Stati Uniti e Unione europea, le minacce di Israele e la guerra della Russia in Ucraina, non è in ogni caso dall’esterno che gli iraniani trarranno aiuti per rovesciare il regime. Benché il sistema non abbia mostrato alcun cedimento o volontà di dialogo, chiosa Vaez, il popolo iraniano non è più quello di 44 anni fa ed è solo questione di tempo l’esplosione di un nuovo confronto con il regime.

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