«Il rapporto sulla povertà in Israele diffuso dall’Istituto di previdenza sociale israeliano evidenzia il ritorno dell’economia israeliana sul sentiero della crescita rispetto alla crisi del Coronavirus. Mentre nel 2020 il Prodotto interno lordo era diminuito dell’1,9 per cento, nel 2021 è cresciuto dell’8,3, che è il tasso di crescita più alto registrato rispetto ad altri Paesi sviluppati. Il tasso di disoccupazione è diminuito in modo significativo e c’è stato un aumento dei salari reali». L’incipit del comunicato stampa, pubblicato nel sito dell’organismo governativo, parrebbe disegnare una situazione paradisiaca. In realtà, leggendo solo poche righe più sotto, il quadro si fa decisamente più complicato: secondo i dati 2021 in Israele i poveri sono stimati in un milione e 950mila – tra loro 853mila minori e 212mila pensionati. In sostanza vive in povertà il 20 per cento della popolazione israeliana. Oltre il 26 per cento delle famiglie non è in grado di coprire le spese mensili, oltre il 10 per cento ha rinunciato alle cure mediche, poco meno del 7 ai farmaci e il 5 per cento ad un pasto caldo per difficoltà economiche.
La ragione dell’aumento della povertà può essere attribuita a molti fattori. Gli ebrei ultraortodossi e la minoranza araba tendono ad avere famiglie più numerose, hanno spesso redditi più bassi e meno accesso all’istruzione. I lavori più remunerativi sono concentrati nell’area centrale d’Israele, dove è più costoso vivere. I trasporti pubblici sono un problema e ha più opportunità di lavoro chi ha un’auto propria. Gli stipendi nel settore pubblico, che è tra quelli che impiegano il maggior numero di persone, sono bassi e non vengono aggiornati da anni.
Le promesse del premier
Il nuovo governo di Benjamin Netanyahu, che si è insediato a inizio anno, ha promesso nel corso della campagna elettorale di abbassare il costo della vita, che tra i più alti al mondo. Difficile però che qualsiasi ricetta economica riesca, nel breve periodo, a comprimere l’aumento dei prezzi e ad alzare i salari. In più la pandemia di Covid-19 – come in altre parte del mondo – ha contribuito ad allargare la forbice tra ricchi e poveri. L’inflazione in costante aumento erode infine il potere di acquisto e sempre più israeliani sono spinti nella povertà.
Figure di primo piano, come il professor John Gal del Centro Taub per gli Studi di politica sociale, un istituto indipendente di ricerca in campo economico, spiega che non esistono grandi ricette nell’immediato, se non aumentare le tasse a coloro i quali percepiscono redditi alti, e nel contempo varare una serie di sussidi e misure di sostegno al reddito per le fasce più povere della popolazione. Nessuna delle due opzioni sembra però, finora, alle viste.
500 ricconi
Per avere un’idea del divario economico in Israele, basta leggere le classifiche di Forbes. Tra i 500 più ricchi del Paese, ben 385 sono multimiliardari. Tra i 100 super-ricchi individuati nel 2022 (attivi nel più svariati settori, dal turismo alle attività estrattive, dalle telecomunicazioni all’edilizia, dalla farmaceutica ai media) figura anche Roman Abramovich (il magnate russo-israeliano già patron della squadra calcistica del Chelsea, attivo attualmente nel settore dell’acciaio) ma solo al quinto posto, dietro a meno noti «Paperon de’ Paperoni».
Il paradosso è sempre dietro l’angolo: i ricchi israeliani possiedono un’enorme quantità di proprietà immobiliari, mentre la maggior parte della popolazione lotta per pagare il mutuo o non può permettersi di acquistare la prima casa.
Quello dei prezzi alle stelle di affitti e case è infatti uno dei più gravi problemi che attanaglia le famiglie e le giovani generazioni israeliane. Ecco perché il rapporto, alla fine, conclude con parole di saggezza: «Dobbiamo cambiare profondamente la società israeliana e renderla non solo una potenza economica, tecnologica e militare, ma anche una superpotenza della giustizia sociale».