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Sotto un terreno dei greco-ortodossi, la piscina di Siloe nel mirino dei coloni

Cécile Lemoine
9 gennaio 2023
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Sotto un terreno dei greco-ortodossi, la piscina di Siloe nel mirino dei coloni
Intorno al terreno dei greco-ortodossi, grandi striscioni annunciano gli imminenti scavi nel sito della piscina di Siloe, 3 gennaio 2022. (Cécile Lemoine/ TSM)

Il 27 dicembre scorso un comunicato che annunciava l’inizio degli scavi nella storica Piscina di Siloe a Gerusalemme ha coinciso con il sequestro da parte della polizia israeliana e dei coloni di un terreno che copre il resto del sito biblico, di proprietà della Chiesa greco-ortodossa.


Il terreno è ora ormai recintato e circondato da grandi striscioni stampati: «Sito degli scavi della piscina di Siloe». Due guardie di una società di sicurezza privata, incaricata di proteggere i coloni nel distretto di Silwan, sorvegliano l’area intorno.

La mattina del 27 dicembre, i coloni dellorganizzazione Elad, accompagnati da un distaccamento pesantemente armato della polizia di frontiera israeliana, hanno preso possesso del terreno adiacente al sito della piscina di Siloe, a sud-est delle mura di Gerusalemme, nel quartiere palestinese di Wadi Hilwe, a Silwan.

Il terreno in questione (le sezioni 46 e 47 del blocco 30125) è di proprietà del Patriarcato greco-ortodosso. Era stato dato in affitto fin dagli anni Trenta alla famiglia Sumrin, che si occupava di coltivarlo. La famiglia si è quindi rivolta al tribunale, sostenuta dal Patriarcato, che ha condannato l’operazione israeliana e le «pratiche espansioniste» di gruppi ebraici radicali «deliberatamente diretti contro le Chiese cristiane di Gerusalemme».

Il sito della Piscina di Siloe come appare oggi. (foto MAB/CTS)

Tale operazione è coincisa con la pubblicazione di un comunicato in cui la Fondazione Ir David, l’Autorità per la natura e i parchi e l’Autorità israeliana per le antichità annunciavano l’inizio degli scavi per portare alla luce la piscina di Siloe nella sua interezza, al fine di renderla accessibile al pubblico.

«Archeologia politicizzata»

Dal 2004, quando è stato scoperto durante alcuni lavori di canalizzazione, è stato liberato solo un lato della piscina. Il resto della sua area, stimata in 3 dunams (3.000 metri quadrati) si trova sotto il terreno dei greco-ortodossi. «Questa occupazione è un’ulteriore dimostrazione che a Silwan i coloni e il governo di Israele sono una cosa sola», osserva Daniel Seidemann, avvocato israeliano e fondatore della ong Terrestrial Jerusalem.

Il terreno dei greco-ortodossi, conosciuto anche con il nome di «Terra rossa», ricopre i resti della Piscina di Siloe. (foto MAB/CTS)

 

La Fondazione Ir David, nota anche come Elad, ha l’obiettivo dichiarato di «rafforzare il legame ebraico con Gerusalemme», «ospitando famiglie ebree nella Città di Davide», come ha affermato il suo fondatore David Be’eri durante un’udienza in tribunale. Ricca e influente, la fondazione acquista proprietà palestinesi a Silwan approfittando della povertà dei proprietari o della legge sulla proprietà degli assenti.

«Questo non è un atto isolato, ma un sistematico accerchiamento della città vecchia con iniziative dei coloni, così come la politicizzazione dell’archeologia come meccanismo per il sequestro e il controllo della terra nel bacino della città vecchia», denuncia Emek Shaveh, una ong israeliana fondata nel 2009 da archeologi e attivisti in risposta ai condizionamenri politici cui è spesso sottoposta l’archeologia nel Paese.

Costruita durante il regno del re Ezechia nell’VIII sec. a.C., la piscina di Siloe servì dapprima come serbatoio per le acque della sorgente di Ghihon, deviate attraverso un tunnel sotterraneo. Per la sua posizione e importanza, la piscina di Siloe fu rinnovata e ampliata circa 2000 anni fa. Alla fine del periodo del Secondo Tempio, la vasca poteva essere utilizzata come bagno rituale (mikveh) dai pellegrini che poi da Siloe salivano al Tempio, passando per la Città di Davide. Il vangelo di Giovanni racconta che qui Gesù restituì la vista a un uomo cieco dalla nascita.

Se il Patriarcato greco-ortodosso afferma nel suo comunicato che il gruppo di ebrei radicali «non ha alcun diritto o appoggio legale a suo favore per consentirgli di entrare o occupare le terre», la situazione è più complicata e si intreccia con una vicenda precedente.

Un legame con la vendita contestata degli hotel

Da una lettera inviata il 13 novembre 2022 alla famiglia Sumrin, si apprende che la società Donhead Service S.A, una ditta con sede nelle Isole Vergini britanniche, i cui legami con l’organizzazione ebraica radicale Ateret Cohanim è stata rivelata dai Pandora Papers nel 2021, rivendica la proprietà dei lotti 46 e 47. Il legale della Donhead Services spiega che il suo cliente «ha ricevuto tutte le necessarie autorizzazioni e permessi per iniziare immediatamente gli scavi archeologici sulla proprietà», e chiede agli affittuari di lasciare il terreno entro il 30 novembre.

Un documento ottenuto da Daniel Seidemann, afferma che questo terreno fa effettivamente parte della proprietà ceduta nel 2004 dalla Chiesa greco-ortodossa ad Ateret Cohanim. Il Patriarcato ha sempre contestato la legalità della vendita, che ha fatto scandalo tra i cristiani locali, denunciando atti di frode e corruzione. Pratiche per le quali in altri casi è stato puntato il dito sull’organizzazione ebraica.

L’8 giugno, dopo 18 anni di una complessa battaglia legale, la Corte Suprema ha ufficialmente approvato la transazione, rendendo Ateret Cohanim proprietario di tre alberghi alla Porta di Giaffa e di un altro edificio nel quartiere cristiano di Gerusalemme. «Ma la questione della proprietà di questi lotti di terreno non è mai stata affrontata», sottolinea Daniel Seidemann.

Alcuni punti interrogativi

Il documento, che l’avvocato israeliano ha pubblicato sul suo account Twitter il 27 dicembre, corrisponde al contratto di locazione firmato il 31 agosto 2004 tra il patriarca Ireneo I e Donhead Services S.A. «In questo presunto accordo, la Chiesa ha affittato la terra ai coloni per 99 anni e si impegna a prendere misure per sfrattare i residenti palestinesi su istruzioni dei coloni», spiega Daniel Seidemann.

I lotti sono nel mirino delle autorità israeliane almeno dal 2008, quando la municipalità tentò per la prima volta di recuperarli, come ricorda nel suo comunicato il Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme. Durante il procedimento giudiziario che ne è seguito, la Chiesa si è trovata di fronte a documenti che collegavano la terra agli accordi del 2004, branditi da «un’organizzazione radicale israeliana». Una «sorpresa», scrive il Patriarcato, che appare stupito dell’esistenza di questi documenti.

Eppure, per Daniel Seidemann, l’operazione del 27 dicembre solleva molti interrogativi sul piano legale. «Perché i coloni hanno aspettato 18 anni? La sentenza della Corte Suprema che trasferisce la proprietà degli hotel ai coloni si applicherà anche a questo terreno? Quali sono i diritti della famiglia Sumrin e della Chiesa greco-ortodossa?». Tanti punti interrogativi che per il momento restano senza risposta.

 

 

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