Karin Lindner è un’elegante signora israeliana di 86 anni, che parla un ottimo inglese. Architetto in pensione, è nonna e abita a Tel Aviv.
Fa parte di Machsom Watch (machsom in ebraico significa check-point, posto di blocco), associazione nata nel 2001 e composta da sole donne – perlopiù non giovanissime – che si battono contro l’occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi di Cisgiordania (iniziata nel 1967). Lo fanno monitorando la situazione ai posti di blocco, denunciando abusi o violazioni dei diritti dei palestinesi e soprattutto cercando di informare, in Israele, su quanto accade al di là del muro di separazione.
Oggi i membri attivi sono un’ottantina, mentre la rete di contatti che partecipano alle attività in modo più sporadico conta circa 250 persone.
Abbiamo incontrato Karin in videochiamata e le abbiamo chiesto di raccontarci come questa organizzazione si collochi oggi all’interno del mondo delle associazioni per i diritti umani in Israele, su cosa stia lavorando e quali prospettive intravveda alla luce delle ultime elezioni.
Una protesta politica
Per rispondere, Lindner compie un passo indietro, partendo dagli inizi del suo impegno, nel 2003: «In quegli anni le attiviste di Machsom Watch erano le uniche ad andare ai check-point nell’area centrale dei Territori palestinesi, a Qalqilya [dove ci sono barriere di ingresso alla città di Ramallah arrivando da Gerusalemme – ndr] e a Nablus, allora letteralmente circondata da posti di blocco. Stavamo lì in piedi, aspettando per ore. Eravamo divise in quattro gruppetti al giorno: due la mattina e due al pomeriggio. Fu terribile. La nostra era – ed è – essenzialmente una protesta politica contro l’occupazione. Non si tratta di portare aiuti umanitari quanto piuttosto di testimoniare con la presenza il nostro “no” a questa politica. Poi, un giorno, di colpo, alcuni check-point vengono rimossi (fu il caso di Nablus): ciò a conferma del fatto che spesso non servono per la sicurezza, bensì a rendere sempre più difficile la vita della popolazione palestinese».
Il lavoro a fianco dei villaggi palestinesi
Attualmente Machsom Watch è molto impegnata anche nelle campagne e nei villaggi dei Territori, in particolare nella cosiddetta Zona C, sotto controllo civile e militare israeliano.
«Andiamo nei villaggi per aiutare i palestinesi con i permessi e le complicate operazioni burocratiche legate alla coltivazione di terreni, di frequente impedita dal muro o dai posti di blocco», spiega Karin. «Svolgiamo più che altro un ruolo di mediazione tra i coltivatori e le autorità israeliane, ad esempio i consigli municipali. Proviamo poi a capire com’è la situazione, quali sono i principali problemi, per poterli testimoniare nei nostri rapporti. In una parola: cerchiamo di stare accanto a queste persone. Lavoriamo anche con diversi gruppi di donne, insegnando loro l’inglese (la lingua che richiedono di più) o ricamando insieme. In genere due o tre delle nostre volontarie incontrano un gruppo di una decina di donne».
Karin cita tra i bisogni più urgenti dei villaggi di quest’area: la mancanza d’acqua e di elettricità; la presenza di coloni estremisti che minaccia il lavoro dei contadini (ad esempio durante la raccolta delle olive); il problema dell’accesso ai terreni – proprietà di coltivatori palestinesi – reso difficoltoso, se non impossibile, dalle barriere che Karin chiama «stagionali».
Infine, le donne di Machsom Watch sono tra i volontari impegnati nelle colline a sud di Hebron, segnate da povertà e tensioni quotidiane, e organizzano tour in Cisgiordania, in particolare nella Zona C. L’obiettivo è mostrare la vita sotto occupazione. «Abbiamo dovuto interrompere queste visite durante la pandemia da Covid-19 e, a fasi alterne, a causa della mancanza di sicurezza, ma speriamo di riprenderle presto, soprattutto nella Valle del Giordano, dove abbiamo operato a lungo e dove la situazione è molto difficile», precisa Linder.
L’occupazione negli occhi
Soggiunge: «Da oltre un anno, dopo le elezioni del 2021, collaboriamo inoltre con altri attivisti per la pace sotto lo slogan Guardare l’occupazione negli occhi. Trascorriamo i fine settimana a Tel Aviv di fronte al ministero della Difesa, nel quartiere di Sarona, con cartelli e volantini, parlando con i passanti nei principali incroci e sui ponti. Abbiamo “adottato” un ponte sull’autostrada a nord di Tel Aviv, e stiamo lì con i cartelli in mano per far sì che la gente si ricordi e prenda coscienza dell’occupazione. Parallelamente, firmiamo e diffondiamo petizioni e lettere al governo».
In generale, le zone in cui si divide oggi l’intervento dell’associazione sono quattro: l’area di Gerusalemme, il nord e il sud dei Territori occupati e, infine, la già citata zona centrale, quella che – nell’esperienza delle volontarie – è interessata dai cambiamenti più frequenti.
I fondi per mandare avanti le attività arrivano principalmente dagli iscritti alla mailing list (oltre 3.500) e da organismi ebraici internazionali come New Israel Fund.
L’incertezza sul futuro
Scontato, a questo punto, provare a guardare insieme al futuro. «Non sappiamo cosa succederà con il nuovo governo, di cui fan parte diversi elementi estremisti. Lo choc dopo le elezioni è stato molto forte. Quando leggi il giornale la mattina hai l’impressione che stiamo “perdendo” sempre di più in termini di libertà di parola, di movimento per i palestinesi, di diritti in generale. Nel 2022 la violenza dell’esercito israeliano verso la popolazione palestinese nei Territori è cresciuta in modo esponenziale. Alcuni politici hanno rilasciato dichiarazioni piuttosto gravi verso le organizzazioni che operano per la difesa dei diritti umani. In sintesi, come dicevo, non è facile fare previsioni: non abbiamo idea di cosa accadrà».