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L’ayatollah Khamenei prova a smorzare i toni

Manuela Borraccino
6 gennaio 2023
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In Iran la Guida suprema Ali Khamenei ora ammette che l’obbligo del velo non deve portare all’incriminazione delle manifestanti. Ma non è ancora un cambio di rotta nelle politiche di Teheran.


Dopo quasi quattro mesi di proteste che secondo stime non ufficiali hanno provocato oltre 500 morti e 12mila arrestati, l’anno nuovo si apre per l’Iran con la prima dichiarazione conciliatoria formulata nei giorni scorsi dalla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. «L’hijab è un dovere religioso inderogabile, ma questo dovere inderogabile non dovrebbe significare che coloro che non lo osservano pienamente dovrebbero essere accusate di essere anti-religiose o contro-rivoluzionarie», ha detto l’anziano chierico a capo della Repubblica islamica, si legge sulla testata Al Monitor.

Riferendosi a quante stanno manifestando da mesi dopo l’omicidio, da parte delle forze dell’ordine, della giovane curda Mahsa Amini lo scorso 16 settembre, Khamenei le ha definite «come nostre mogli e figlie». Ha inoltre coniato un’espressione che diventerà probabilmente piuttosto popolare nei media iraniani, parlando del velo che non copre interamente i capelli come «hijab debole» e chiedendo perché tante accuse siano state rivolte contro «l’hijab cattivo». «L’hijab debole non è cosa buona – ha detto – ma non dovrebbe accadere che per questo le persone vengano considerate contro la religione o contro la rivoluzione: ciascuno di noi commette degli errori che andrebbero risolti».

Non è un cambiamento, ma un’apertura

Non si tratta della fine dell’obbligo del velo. E difficilmente queste dichiarazioni porteranno a dei cambiamenti. Ma è la prima volta, negli ultimi tre mesi e mezzo, che la Guida suprema si esprime in questi termini e lascia trasparire un approccio pragmatico alle proteste, dopo aver accusato i manifestanti di essere «agenti di governi stranieri» ed in particolare degli Stati Uniti. Le manifestazioni, d’altra parte, hanno visto un calo di partecipazione, ma non si sono affatto spente. Due giovani sono stati giustiziati per essersi opposti alla repressione delle forze dell’ordine, ed almeno una dozzina di condannati a morte per gli stessi capi d’accusa rischiano l’esecuzione.

Nei mesi scorsi non sono scese in strada soltanto le donne: si è passati dal rifiuto di indossare il velo, con la carica simbolica che ciò comporta, alla richiesta sempre più pressante della fine del regime instaurato con la rivoluzione khomeinista del 1979. I contadini hanno manifestato a causa della siccità, gli studenti per la mancanza di libertà, gli insegnanti per il pagamento arretrato dei salari, i pensionati per i sussidi troppo bassi. Tutto questo, rimarcano in un recente articolo su Foreign Affairs i due politologi Eric Edelman e Ray Takeyh dimostra che la Repubblica islamica si mostra sì resiliente, ma non è impermeabile alle proteste.

Dopo l’Onda verde del 2009, nel 2017 e nel 2019 il carovita, con l’aumento dei prezzi dei beni primari come grano e carburante, ha provocato un crescente malcontento nella classe media. È vero che la protesta non ha una leadership chiara, una struttura organizzata e un programma politico che possa fornire un’alternativa al regime, ma le proteste di oggi sono diverse dal passato e stanno coinvolgendo fasce sempre più ampie di popolazione.

Le proteste di oggi hanno caratteristiche diverse

Le donne, tra l’altro, ricordavano nelle scorse settimane le politologhe Fatemeh Haghighatjoo, Zoe Marks e Erica Chenoweth sono state storicamente agenti di cambiamento in Iran ed oggi svolgono un ruolo ancora più decisivo nelle proteste: è la prima volta nella storia recente della regione che una rivolta nazionale viene innescata dalla morte di una giovane donna, peraltro di un gruppo etnico minoritario.

Il fatto che queste proteste siano guidate in modo visibile e persistente dalle donne è di grande importanza perché, come sottolineavano le stesse autrici in un altro articolo i movimenti in cui le donne svolgono un ruolo di primo piano tendono ad attrarre un numero molto maggiore di partecipanti e sono precisamente i movimenti non violenti ad avere più probabilità di successo nell’instaurare la democrazia. Ecco perché non mancano motivi per ritenere che i movimenti che hanno acquisito visibilità in questi mesi e le crepe che hanno aperto nel regime possano preludere all’inizio di processi di cambiamento.

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