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Iran, i grandi ayatollah e i ribelli in famiglia

Elisa Pinna
3 dicembre 2022
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Tra le tante donne arrestate in queste settimane a Teheran c'è anche Farida Miradkhani, nipote della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei e apertamente critica del regime teocratico di cui suo zio è garante. Come Farida, anche altri figli o nipoti degli uomini ai vertici contestano il sistema...


Le proteste contro la teocrazia iraniana e le lacerazioni che scuotono l’Iran sembrano non risparmiare nessuno ed entrano anche nelle case degli ayatollah più in vista.

Tra le tante donne arrestate in queste settimane, un nome ha fatto scalpore: quello di Farida Miradkhani, nipote della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. La donna ha diffuso sui social un video nel quale accusa lo zio – Farida è figlia della sorella di Khamenei – di essere un novello Hitler. Coperta dal tradizionale chador nero, incita di persona i suoi connazionali a non appoggiare più «un regime che uccide i bambini». Farida si trova adesso nel carcere di Evin, a Teheran, come tante altre donne che non portano un nome importante come il suo.

Sembrerebbe un ripudio clamoroso, un segnale del franare irresistibile del regime; ma in realtà la ribellione di una rampolla dell’alta classe dirigente non è una novità sulla scena iraniana. Nelle famiglie religiose di vertice capita non di rado che le nuove generazioni si dissocino e prendano pubblicamente strade opposte a quelle dei loro padri o dei loro nonni, a riprova di quanto siano profonde le tensioni e articolate le dinamiche che attraversano la Repubblica islamica.

Anche la figlia dell’ex presidente iraniano, l’ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsajani, rivoluzionario della prima ora e abile gestore del potere fino alla morte nel 2017, è stata arrestata in questi giorni per «aver incitato le proteste di strada», secondo quanto riferisce l’agenzia iraniana Tasnim. Faezeh Hashemi Rafsajani, oggi 59enne, si batte da decenni per i diritti delle donne iraniane, ed è una fiera oppositrice del regime teocratico costruito da suo padre. La donna è di casa nella prigione di Evin, dove è stata rinchiusa molte volte durante la sua vita, ultimamente anche lo scorso aprile dopo aver preso di petto – durante una trasmissione radiofonica – i Guardiani della Rivoluzione, o Pasdaran, accusandoli di essere un pericolo per la popolazione iraniana.

Persino l’ayatollah Ahmad Jannati, il più rigidamente conservatore e inflessibile tra gli uomini chiave del regime, è perseguitato da un suo personale fantasma familiare. Jannati, un vegliardo di 95 anni, è oggi presidente del Consiglio degli Esperti, il “conclave” dei religiosi sciiti che dovrà eleggere la nuova Guida Suprema alla morte di Khamenei.

Nel 1982, suo figlio Hussein Jannati, un militante del gruppo anti-khomeinista denominato Mujahedin del popolo iraniano, fu ucciso dai Pasdaran durante uno scontro a fuoco. Pubblicamente Jannati non ha mai versato una lacrima per la morte di quel figlio ribelle. Ha invece continuato imperturbabile la sua carriera, divenendo tra l’altro nel 1988 presidente del Consiglio dei Guardiani, l’organismo che ha il diritto di veto sulle leggi del Parlamento e sui candidati alle elezioni legislative e presidenziali. Un incarico che detiene tuttora, sommandolo a quello al vertice del Consiglio degli Esperti.

A guardare bene, la dissociazione politica e gli scontri intergenerazionali all’interno delle famiglie dei grandi ayatollah segnano già l’origine della Repubblica islamica. Tant’è vero che dei figli del leader della Rivoluzione, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, nemmeno uno è sostenitore dell’attuale regime. I nipoti (8 uomini e 7 donne) sono tutti oppositori dichiarati: i più hanno scelto di vivere all’estero, alcuni persino nel “Paese del Grande Satana”, gli Stati Uniti. In pochi sono rimasti in Iran. Il più famoso, Hassan Khomeini, un aspirante calciatore divenuto poi un ayatollah di prestigio, è costantemente escluso, per le sue posizioni troppo critiche, dalla partecipazione alle elezioni politiche o dal ricevere incarichi religiosi in organismi di Stato. Un’altra nipote, Zahra Eshraghi, è – come la figlia di Rafsajani – una delle esponenti storiche del movimento per i diritti delle donne.

Si tratta dunque di un fenomeno di rottura intergenerazionale che ha una lunga storia. Qualcuno ha persino parlato di una inconscia strategia di sopravvivenza delle famiglie dell’aristocrazia religiosa (gli ayatollah ai vertici hanno spesso anche grandi interessi economici): il dissenso come assicurazione per il futuro. Tuttavia, la ribellione all’interno delle più prestigiose famiglie religiose iraniane non ha portato finora all’emergere di quel leader o di quella classe dirigente che manca all’opposizione e alle proteste di piazza.

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