Le proteste di piazza in Iran sono entrate nel terzo mese e dimostrano una tenacia su cui pochi scommettevano. Le autorità alternano all'utilizzo della violenza repressiva anche barlumi di pragmatismo. Nella capitale molte donne ormai circolano, indisturbate, senza velo.
La rivolta contro il regime teocratico degli ayatollah non accenna a placarsi in Iran ed entra nel suo terzo mese, con una combattività su cui pochi avrebbero scommesso agli inizi. Accanto ai cortei, agli scontri, alle guerriglie urbane che hanno continuato a infiammare anche in quest’ultimo fine settimana le strade e le piazze del Paese, si affacciano in Iran nuove tattiche: le sfide individuali di ordinaria quotidianità alle leggi e ai simboli islamici. Ci riferiamo al cosiddetto «lancio del turbante» – in cui singoli ragazzini o ragazzine, nell’indifferenza generale, accostano per strada ignari mullah e, con un colpo di mano rapido, fanno rotolare al suolo i loro copricapi –, o al fenomeno, ben più importante in termini di conseguenze sociali e politiche, del numero sempre maggiore di donne che escono di casa per andare in ufficio o a scuola senza velo.
Se il «lancio del turbante» può essere inquadrato in una reazione di rabbia, anche se un po’ goliardica, a tutto ciò che il clero ha imposto alla popolazione iraniana negli ultimi decenni, di tutt’altro peso è il gesto di non indossare più il velo nella vita di tutti i giorni, al di là dei cortei di protesta. Vedere donne senza hijab nella capitale Teheran «sta diventando un fatto quasi normale», azzarda il corrispondente del Middle East Eye. La notizia ancora più grossa è però che la polizia, nella maggioranza dei casi, non reagisce e si limita a controllare a distanza. A leggere le testimonianze degli osservatori, sembra quasi che ci sia un tacito accordo in base al quale se le donne si comportano con discrezione e non assumono atteggiamenti esplicitamente ostili, la cosa può pure essere tollerata. Se invece il togliersi l’hijab è un atteggiamento politicizzato ed esplicito contro il regime, come avviene nelle manifestazioni, ma anche nei gesti innocenti di offrire fiori ai passanti, scattano i pestaggi o gli arresti. A segnalare il fenomeno, per ora localizzato solo nella capitale (e nei suoi quartieri più ricchi) non sono solo i collaboratori locali di importanti testate internazionali, tra cui il Financial Times, ma persino l’attuale ministro del Turismo iraniano, il conservatore Ezzatollah Zarghami, il quale, parlando a un gruppo di giornalisti, a quanto riferisce il Middle East Eye avrebbe detto: «Oggi le nostre giovani ragazze e le nostre studentesse camminano per strada senza il velo. E allora?».
Alcune settimane fa l’ex presidente del Majlis (il parlamento iraniano), Ali Larijani, un politico navigato anche se fuori dai giochi attuali, aveva suggerito, in un’intervista ripresa da alcuni giornali locali, che il controllo sull’hijab avrebbe potuto seguire la strada percorsa dalle autorità iraniane riguardo alle parabole satellitari. Cosa intendeva? Trent’anni fa le parabole, con il loro carico di canali televisivi internazionali, erano state proibite per legge e la polizia iraniana irrompeva in ogni condominio per sradicarle dai tetti. Dopo vent’anni di sforzi repressivi titanici, le parabole, anziché sparire, si erano moltiplicate di numero. Così un decennio fa la polizia ha deciso di chiudere entrambi gli occhi, anche se la proibizione legale è rimasta in vigore.
È difficile interpretare le parole di Zarghami e di Larijani, o l’atteggiamento morbido (pur con le dovute eccezioni) della polizia di Teheran verso le donne senza velo. Potrebbe essere il tentativo di una parte della nomenclatura di costruire una possibile via d’uscita pragmatica, molto all’iraniana, a cui potrebbe aggrapparsi la teocrazia islamica per cercare di comprare tempo e sopravvivere all’attuale crisi. Mancano però troppi elementi per convalidare una simile ipotesi.
Le parabole satellitari non hanno lo stesso valore dell’hijab, uno dei pilastri dell’identità islamica iraniana. La repressione delle manifestazioni continua ad essere estremamente dura, in particolare nelle aree curde o azere; soprattutto, nel Paese la rivolta che ha preso di mira il cuore del regime non sembra disposta a fermarsi, costi quel che costi. L’Iran Human Rights, organizzazione umanitaria con sede in Norvegia, nel bilancio dei primi due mesi, parla di quasi 350 morti, tra cui 43 bambini e 25 donne, un numero imprecisato di feriti e 15 mila arrestati, che rischiano detenzioni lunghe, ergastoli, e in alcuni casi la pena capitale. Due giovani, hanno annunciato le autorità ufficiali, sono già stati condannati all’impiccagione. Molti altri probabilmente la rischiano anche a causa di un Majlis forcaiolo che, alcuni giorni fa, in una lettera firmata da quasi tutti i suoi membri, ha esortato il potere giudiziario a usare la mano pesante.