Sono sempre di più gli iraniani che emigrano: 2 milioni nel 2020. Molti sono professionisti altamente specializzati, ingegneri, fisici, matematici, informatici. Un'emorragia preoccupante, un'altra faccia della crisi della repubblica islamica.
Negli ultimi trent’anni anni è più che raddoppiato il numero di iraniani emigrati per cercare migliori condizioni di vita e di lavoro all’estero. Risultavano essere 800mila nel 1990 e sono passati a 2 milioni nel 2020, in base ai dati dell’Osservatorio sulla migrazione iraniana, un istituto di ricerca della repubblica islamica. Si tratta probabilmente di cifre sottostimate, perché considerano solo chi ha cambiato in modo permanente e ufficiale la propria residenza, mentre trascurano chi da un punto di vista formale si trova in maniera ancora non definitiva all’estero, con visti turistici, che possono durare fino a 5 anni, o di studio. Al di là delle cifre ballerine (l’agenzia di notizie iraniana Fararu parla di circa 50 mila partenze al mese) ciò che preoccupa le autorità iraniane è l’identikit di chi parte. Si tratta di professionisti altamente specializzati, ingegneri, fisici, matematici, informatici, che rappresentano un capitale umano indispensabile per una nazione ingabbiata dall’embargo internazionale e che deve contare soprattutto sulle proprie forze.
Negli ultimi anni, inoltre, l’età di chi emigra si è abbassata drasticamente. Ai professionisti maturi si aggiungono gli studenti più talentuosi delle università e persino delle scuole secondarie iraniane: il 37 per cento dei vincitori delle “olimpiadi accademiche” (concorsi nazionali che si svolgono annualmente in Iran), il 25 per cento degli studenti selezionati per gli atenei d’eccellenza e il 15 per cento degli allievi con la migliore media scolastica nazionale si sono trasferiti all’estero per proseguire i propri studi. Sono gli ex compagni di classe e i coetanei delle ragazze e dei ragazzi che in queste settimane sono scesi in piazza per protestare non solo contro l’obbligo del velo, ma contro la politica soffocante e liberticida della teocrazia islamica. Sono l’altra faccia di una crisi profonda e sistemica che investe l’Iran post-rivoluzionario. Anche gli emigrati lasciano la propria patria – rivelano le ricerche fatte sul campo – a causa della disastrosa situazione economica e della mancanza di libertà politiche e sociali.
Secondo Adel Talebi, segretario dell’Internet Business Association, citato da diversi giornali iraniani, la repubblica islamica è ormai in affanno per la scarsità di personale altamente qualificato: ne soffre non solo il settore della cybersicurezza, ma anche tutte le aree del comparto informatico, dallo sviluppo dei sistemi, alla scrittura di software, alla programmazione. Con la fuga dei cervelli l’Iran ha scoperto la propria vulnerabilità informatica: industrie, infrastrutture, siti istituzionali sono stati colpiti ripetutamente da attacchi esterni, dietro cui – secondo le autorità iraniane – operano gli Stati Uniti e Israele. Tutto ciò ha comportato costi e un senso crescente di insicurezza.
Nei loro interventi pubblici, sia il presidente Ibrahim Raisi sia la guida (religiosa) suprema Ali Khamenei continuano a parlare dei progressi e della forza tecnologici iraniani, come se nulla fosse. È di martedì 18 ottobre il discorso del leader massimo sull’efficienza dei droni iraniani, usati – secondo fonti occidentali – anche dai russi in Ucraina.
Nella politica quotidiana, le autorità iraniane promettono di impegnarsi per frenare l’emorragia di competenze e know-how verso l’estero e in particolare verso i Paesi occidentali. Per ora, tuttavia è mancata qualsiasi iniziativa concreta, osserva Fararu, che spesso dà voce a posizioni riformiste. Il vuoto è stato spesso rimpiazzato con persone inadeguate e con criteri “lobbistici e nepotistici”. «Se però – si legge sul sito – l’Iran perde i suoi talenti, i suoi migliori scienziati e le sue giovani promesse, finirà per perdere sé stesso».