Lo scontro politico nel Paese ha raggiuto alla fine di agosto un momento di massima tensione, quando il leader sciita, ma anti-iraniano, Moqtada al Sadr ha incitato e poi raffreddato gli animi dei suoi tanti sostenitori. Come si esce da una situazione bloccata?
Scene di violenza, come non si vedevano da anni, sono tornate in Iraq a fine agosto, sia a Baghdad sia nella regione meridionale sciita. Si contano decine di morti, trenta nella sola capitale, e oltre 600 feriti. È scattato il coprifuoco nazionale ed è tornato l’allarme sulla tenuta delle fragili istituzioni del Paese, dove è riapparso lo spettro di una possibile nuova guerra civile, stavolta tra sciiti filoiraniani e sciiti nazionalisti
La fase di maggior caos e spargimento di sangue è durata poco più di 24 ore, tra lunedì 29 e martedì 30 agosto, ma il caos politico istituzionale prosegue da mesi. A dar fuoco alle polveri e a spegnere in tempo le fiamme prima che diventassero un incendio è stato un protagonista ormai ventennale della storia irachena, il chierico sciita nazionalista Moqtada al Sadr, noto in gioventù per la sua guerriglia contro gli occupanti americani e ora, a 48 anni, per il suo anche violento contrasto alle interferenze di Teheran negli affari del Paese.
Dopo che il suo partito aveva vinto le elezioni nell’ottobre 2021, senza però avere i numeri per formare da solo un esecutivo, e dopo mesi di inconcludenti negoziati per dare vita a un governo di coalizione in chiave anti-iraniana, a giugno al Sadr ha imposto a tutti i suoi deputati di dimettersi dal parlamento. Per effetto della legge elettorale, ai dimissionari sono succeduti i secondi arrivati nelle urne, quasi tutti dei partiti sciiti filo-iraniani. Nel frattempo, i miliziani di al Sadr hanno occupato la cosiddetta Green Zone, l’area teoricamente blindata dei palazzi del potere e delle ambasciate.
La situazione di stallo è andata avanti a lungo senza particolari incidenti. Quando però, lunedì 29 agosto, al Sadr ha annunciato la sua decisione di abbandonare la vita politica irachena, i suoi miliziani sono passati all’azione, assaltando le sedi istituzionali, le forze di polizia e tutti i simboli della presenza iraniana. Gli scontri si sono rapidamente diffusi a tutta la regione sciita dell’Iraq, dando vita a battaglie tra clan di fedelissimi di al Sadr e gruppi di sciiti filo-Teheran. Prima che la situazione degenerasse in modo irreversibile, è ricomparso al Sadr, il 30 agosto, per intimare ai suoi di tornare entro un’ora nelle proprie case e mettere fine allo spargimento di sangue iracheno. In effetti la calma è tornata, lasciando però aperti molti interrogativi.
Innanzitutto, perché al Sadr ha deciso di dimettersi dalla scena politica? Alcuni analisti iracheni attribuiscono il gesto a una reazione d’ira, non certo rara nei comportamenti del personaggio. Dal 2013, si fa notare, al Sadr ha «ufficialmente lasciato la politica» almeno una decina di volte. Ora la ragione di questa decisione sarebbe legata al ritiro dall’attività teologica, per probabili motivi di salute, del suo mentore spirituale e riferimento religioso nel movimento sciita nazionalista, l’anziano ayatollah iracheno Kadhim al Haeri. Il religioso, domenica 28 agosto, non si è limitato a comunicare l’addio alla predicazione pubblica, ma ha inaspettatamente invitato i suoi fedeli ad affidarsi alla guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei. Un colpo basso, politico più che teologico, mirante a indebolire al Sadr e dietro al quale non è difficile intuire la longa manus di Teheran.
Secondo altri osservatori, al Sadr ha agito in realtà razionalmente, per dimostrare il suo potere e rafforzare la sua richiesta di sciogliere l’attuale parlamento per andare a elezioni anticipate, una richiesta respinta dal potere giudiziario, in quanto – secondo la Costituzione irachena – deve essere l’assemblea legislativa a decidere il proprio scioglimento.
Rabbia per il tradimento della sua guida religiosa o calcolo politico a freddo, sta di fatto che al Sadr ha dimostrato «di essere in grado di mobilitare e smobilitare la piazza con una sua parola o uno schiocco delle dita», afferma l’analista iracheno Fanar Haddad. Si calcola che abbia un seguito popolare di circa sette milioni di sostenitori, su una popolazione di 40 milioni di persone, e notoriamente dispone di milizie armate fino ai denti. È l’uomo più influente del Paese, a parte l’ayatollah Ali al Sistani, ormai vecchio, malato e divenuto taciturno. In pochi credono ad un ritiro a vita privata di al Sadr e molti si chiedono cosa succederà adesso.
A leggere i giornali mediorientali, nessuna delle fazioni e milizie che occupano la politica irachena sembra realmente intenzionata a una resa dei conti e a un cambiamento vero di un assetto istituzionale che, alla fine, fa comodo ai maggiorenti del Paese e drena i proventi del petrolio (90 miliardi di dollari nel 2021) nelle casse delle diverse fazioni, anziché per utilizzarli per la modernizzazione e la crescita dell’Iraq. Lo stesso al Sadr ha sempre giocato sul doppio tavolo: quello della difesa dei poveri e quello della spartizione del potere. Nel 2019, appoggiò inizialmente le manifestazioni dei giovani contro la corruzione governativa e per riforme radicali del sistema basato sulle diverse identità confessionali ed etniche (sciiti, sunniti e curdi), salvo poi sparare contro di loro e reprimere le proteste, insieme alle milizie filo-iraniane.
Da Teheran arrivano peraltro in questi giorni inviti al dialogo, gli Stati Uniti si sono ormai disimpegnati dall’Iraq, e tensioni interne paralizzano non solo gli sciiti, ma anche i sunniti e i curdi. La possibilità di una guerra civile sembra per il momento non attuale e, secondo alcuni giornali, uomini di al Sadr, filoiraniani, sunniti e curdi sarebbero già tornati a trattare sul futuro del governo e su eventuali elezioni. L’Iraq non può però andare avanti con compromessi di basso livello: «La violenza di questi giorni indica profonde divisioni e un’impasse totale della politica irachena. Senza soluzioni profonde e una revisione della Costituzione lasciata dagli Stati Uniti, la violenza riapparirà e non è da escludere una guerra civile tra sciiti e sciiti», dice Sajad Jiyad, analista politico iracheno della Century Foundation.