Intervenendo in apertura al 43esimo Meeting di Rimini (in corso fino giovedì 25 agosto), monsignor Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei cattolici latini, ha parlato di cristiani e di pace insieme all’arcivescovo di Bangui (Centrafrica) Dieudonné Nzapalainga e a monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo cattolico a Mosca. Se l’invasione russa dell’Ucraina ha portato da sei mesi morte e sofferenza alle porte dell’Europa, i conflitti, spesso lunghissimi e rimossi in Africa e Medio Oriente, spingono a una riflessione costante dei cristiani su che cosa significa dialogo e perdono, per conciliare e mettere fine alla violenza. «Non ci può essere alcuna purificazione delle relazioni, se non si ha il coraggio di parlare di perdono, di iniziare percorsi di riconciliazione, non solo a livello di piccole nicchie, di gruppi, ma in un contesto più generale, sia politico che religioso», ha osservato il patriarca.
Senza purificare la propria lettura della storia dall’enorme bagaglio di dolore e ingiustizie che ancora condizionano pesantemente il presente e le scelte che si compiono, in Medio Oriente e in Terra Santa non si potranno superare gli ostacoli odierni nel cammino di riconciliazione, né progettare un futuro sereno. «Non si tratta di dimenticare, certamente», ma ha anche aggiunto che se si pone alla base della propria identità personale, sociale e nazionale «l’essere vittima», invece di fondare le proprie prospettive su una speranza comune, sarà difficile costruire un futuro. «Il perdono è un ingrediente necessario per superare questa impasse».
Impasse politico e assenza di fiducia
E proprio di impasse si tratta, se si pensa che il conflitto tra israeliani e palestinesi prosegue ormai da tre quarti di secolo. Solo nelle ultime settimane decine di bambini e ragazzi palestinesi sono morti o in scontri nei Territori occupati e nei raid contro Gaza delle forze armate israeliane del 5-8 agosto; mentre centinaia di razzi sono stati lanciati su Israele da gruppi armati palestinesi. L’ufficio dell’Onu per i diritti umani di Ginevra conta i morti e lancia l’allarme per il gran numero di civili vittime. Una situazione che non fa che approfondire la mancanza di fiducia che accomuna israeliani e palestinesi.
Nella sua quinta partecipazione al Meeting di Rimini, mons. Pizzaballa ha portato questa riflessione sul perdono, inteso come sinonimo di rinuncia alla difesa dei propri diritti: «Le varie matrici culturali e religiose locali hanno un influsso enorme su questo tema. Ebraismo, islam e cristianesimo hanno un approccio molto diverso all’esperienza del perdono, che viene spesso inteso un po’ da tutti come sinonimo di debolezza». Tuttavia, parlare di perdono è necessario, ma serve allo stesso tempo anche ascoltare e dare voce a quella resistenza al perdono. Una conciliazione e una sintesi difficile e sempre dolorosa, che non sempre funziona. «Impegnarsi per la giustizia e la pace, insieme al perdono, non è cosa che suscita immediata comprensione – ha osservato il patriarca, che da più di trent’anni vive in Terra Santa –. Non credo sia possibile impegnarsi veramente e da credente per la giustizia e per la pace, e contemporaneamente essere acclamato».
Come nella scelta tra Gesù e Barabba
La drammatica scelta che si impose al popolo tra Gesù e Barabba è presa dal patriarca come riferimento per leggere il presente. «Barabba era un attivista, come si direbbe oggi: lottava per la liberazione del suo popolo. Aveva un suo seguito, voleva giustizia, libertà, dignità per il suo popolo. Il suo era un messianismo semplice, concreto, attraente e niente affatto utopico. Dall’altra parte c’era Gesù. Scegliere Cristo – ha detto il patriarca – non è scegliere l’indifferenza al male del mondo. C’è la mentalità di Barabba, l’integralismo di chi vuol fare una sorta di nuove crociate, ma c’è anche l’indifferenza di un cristianesimo disincarnato. Eppure, in fin dei conti, il cristiano ha scelto Cristo, e questi è morto in croce, fallito e sconfitto. Dal punto di vista strettamente umano, non c’è alcun dubbio che il perdono assomigli a una sconfitta. Gesù non ha risolto nessuno dei problemi sociali e politici del suo tempo. Gesù non ha liberato l’uomo da questa o quella oppressione umana. Non ha operato una liberazione, ma la liberazione. Ha ricuperato nella sua radice profonda la relazione tra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro».
È stata lodata la piccola comunità cristiana di Gaza, della quale il patriarca ha sottolineato «l’attenzione a non permettere che il cuore si inaridisca in sentimenti di odio». Monsignor Pizzaballa ha ricordato quindi il dovere di testimoniare la partecipazione della comunità cristiana ai drammi e alle speranze dei due popoli. «Devono poter contare sul fatto che un cristiano non è mai passivo, indifferente, rassegnato. La nostra vocazione è evitare che il conflitto entri nel cuore delle persone, bruci la loro fede e speranza, e diventi un modo di pensare».