Nonostante il quadro della regione sia tutt’altro che rassicurante, la Cina continua a radicarsi in Medio Oriente, in maniera speculare al disimpegno statunitense. Ogni vuoto è immediatamente riempito. E non solo in Iraq.
Gli Stati Uniti non hanno fatto in tempo a ridimensionare la loro presenza militare e i loro aiuti in Iraq, che la Cina li ha già rimpiazzati con investimenti senza precedenti. Nel 2021, l’Iraq è stato il maggiore beneficiario del flusso di capitali cinesi nel quadro della Belt and Road Initiative, la nuova Via della Seta che tanto inquieta gli americani. Verso Baghdad si sono infatti indirizzati 10 miliardi e mezzo di dollari, destinati a infrastrutture energetiche e logistiche ma anche alla costruzione di mille nuove scuole.
Il dato è riportato nel rapporto annuale del Green Finance and Developement Center dell’Università Fudan a Shanghai, ripreso anche dal giornale britannico The Financial Times. Non si tratta di una generosità a senso unico: Baghdad ripagherà l’apertura di credito cinese con le sue esportazioni di greggio. Tuttavia la fiducia di Pechino non è un segnale da poco, dato il caos che regna in Iraq, attualmente il secondo produttore di petrolio del cartello Opec e il terzo fornitore di greggio per la Cina. È di questi giorni la notizia dell’occupazione del Parlamento di Baghdad da parte dei fedeli del religioso sciita nazionalista Moqtada Al Sadr per impedire agli sciiti di un cartello filo-Teheran di nominare il presidente del Consiglio e formare un governo alleato dell’ingombrante vicino. I manipoli del chierico anti-americano e anti-iraniano si sono ora ritirati dal palazzo, ma presidiano la Zona verde, l’area della capitale, teoricamente blindata, che contiene le sedi dei palazzi del potere e delle ambasciate. Questa nuova prova di forza intra-sciita avviene dopo anni di instabilità, aggravata dalle elezioni dell’ottobre 2021: il partito di Moqtada al Sadr è riuscito a vincere nelle urne, cacciando all’opposizione i filo-iraniani, ma ha fallito l’obiettivo di creare una maggioranza qualificata per formare un governo. I deputati di Sadr, dopo aver dato le dimissioni nel giugno 2022 e rinunciato al negoziato politico, sono stati rimpiazzati – in base alla legge irachena – dai secondi arrivati nel voto, ovvero proprio dai loro rivali filoiraniani, intenzionati a nominare un nuovo premier. Ciò ha portato alla cronaca degli ultimi giorni e ad un’impennata delle tensioni.
Nonostante il quadro della regione sia tutt’altro che rassicurante, la Cina continua a radicarsi in Medio Oriente, in maniera speculare al disimpegno statunitense. Ogni vuoto è immediatamente riempito. Nei primi sei mesi del 2022, Pechino ha investito quasi sei miliardi di dollari in Arabia Saudita, si tratta di una cifra già importante per sé, ma ancora più significativa nel quadro generale dei flussi di capitale cinese all’estero. Per il quinquennio 2021-2025, la Cina ha stanziato 500 miliardi di dollari per investimenti internazionali, il 25 per cento in meno rispetto ai 740 miliardi di dollari del quinquennio precedente, 2016–2021. In completa controtendenza, i flussi di denaro cinese verso i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa segnano però un aumento del 360 per cento nel settore energetico e del 116 per cento nei settori dei trasporti e delle infrastrutture. Si tratta di cifre che hanno costituito una sorpresa per gli stessi estensori del rapporto dell’Università Fudan, i quali si aspettavano invece un maggiore impegno di Pechino nel Sud-Est asiatico.