«Mi stavo esercitando con l’oud (lo strumento a corde palestinese), quando all’improvviso ho sentito diverse esplosioni. Le bombe israeliane hanno appena colpito un appartamento nel centro della città di Gaza», ha scritto sulla sua pagina Instagram Yara Eid, una giovane attivista per i diritti umani che vive nella Striscia. È venerdì 5 agosto pomeriggio e Israele ha appena annunciato l’inizio dell’operazione «Aurora» contro il Jihad islamico a Gaza.
In televisione, il primo ministro israeliano Yair Lapid spiega: «Israele ha condotto una precisa operazione antiterrorismo contro una minaccia immediata. Il Jihad islamico è un complemento dell’Iran, che vuole distruggere lo Stato di Israele e uccidere israeliani innocenti. Faremo tutto il necessario per difendere il nostro popolo».
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Sono tre giorni che l’esercito israeliano attende la minaccia immediata. Tutto è iniziato lunedì primo agosto a Jenin, città nel nord della Cisgiordania, che fa notizia negli ultimi mesi per i numerosi scontri tra la resistenza armata palestinese e l’esercito israeliano. Il leader del Jihad islamico, Bassem al-Saadi, 62 anni, è stato arrestato lì. «Questo arresto non ha un valore dal punto di vista della sicurezza – ha scritto su Twitter Muhammad Shehada, giornalista di Gaza –. Saadi è una figura politica, non un attivista e non ha alcun ruolo operativo».
Con le spalle al muro
In seguito, l’intelligence israeliana viene allertata di imminenti rappresaglie da parte dell’organizzazione, la terza più grande in Palestina, dopo Fatah e Hamas, e vicina all’Iran. Le autorità si preparano al peggio: il sud del Paese si blocca. I valichi tra Gaza e Israele sono chiusi, così come le strade circostanti. Le località israeliane nella cosiddetta «Gaza envelope» (la fascia di territorio israeliano che circonda la Striscia) sono bloccate e viene effettuata una rara chiamata a 25mila riservisti. Passano tre giorni e non accade nulla.
Le comunità israeliane, tagliate fuori dal mondo, cominciano a lamentarsi del fatto che non viene intrapresa alcuna azione militare per liberarle dalla minaccia che incombe su di loro. «Con le spalle al muro, i dirigenti israeliani hanno quindi deciso di prendere l’iniziativa militare, sperando di far uscire il Paese dall’impasse», spiega Amos Harel, analista militare del quotidiano israeliano Haaretz.
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Venerdì 5 agosto, più di un anno dopo la guerra del 2021, inizia quello che Israele chiama un «attacco preventivo». È la prima volta che accade dal 2006, data del ritiro militare dalla Striscia di Gaza, perché i governi di solito preferiscono schierarsi dietro il principio della «legittima difesa», rispondendo ai colpi partiti da Gaza.
Per molti questa operazione, chiamata «Aurora», non ha giustificazione. «L’attacco israeliano è inutile, non provocato e sconsiderato», ha affermato Hugh Lovatt, analista dell’Efcr, il Consiglio europeo per le relazioni estere. Indica l’assenza di una minaccia concreta: «L’unica informazione su questa “minaccia immediata” era un possibile attacco anticarro. È molto specifico e non suggerisce un desiderio di escalation, tanto più che la situazione a Gaza era calma».
Difficoltà e facce consumate
Per due giorni, l’esercito israeliano prende di mira i leader e le infrastrutture del Jihad islamico a Gaza. Se i colpi vogliono essere precisi, il bilancio delle vittime però aumenta rapidamente. Al momento del cessate il fuoco, domenica alle 23.30, il ministero della Salute palestinese riferisce di oltre 350 feriti e 44 morti. Tra questi, 15 membri dell’organizzazione, tra cui due personalità di spicco: Tayssir Al-Jabari, comandante delle Brigate Al-Quds, e Khaled Mansour, capo delle brigate meridionali; ma ci sono anche civili, tra cui 15 bambini.
A Gaza la situazione umanitaria si sta rapidamente deteriorando. Il blocco imposto all’enclave non consente più di rifornire di carburante l’unica centrale elettrica della fascia costiera, che è stata chiusa. I palestinesi vivono nell’oscurità e senza aria condizionata nell’estate soffocante. Domenica il ministero della Salute palestinese ha annunciato che i generatori negli ospedali della Striscia hanno solo 48 ore di autonomia rimaste. Sui social network, foto e video mostrano volti segnati e lo sconforto di una popolazione che si stava appena riprendendo dal conflitto di un anno fa.
Da parte palestinese, la risposta è guidata esclusivamente dal Jihad islamico, che fino a domenica sera, secondo un conteggio dell’esercito israeliano, lancia quasi 930 razzi verso Israele, provocando solo alcuni danni materiali. La stragrande maggioranza viene intercettata dall’Iron Dome, il sistema antimissile di Israele. Hamas, il vero detentore del potere militare e politico nella Striscia di Gaza, resta fuori dal conflitto.
«Poco più di un anno dopo la guerra del maggio 2021, Hamas non si è ripreso. È strategicamente perso. Sa anche che il popolo di Gaza non ha la forza per sopportare un altro conflitto», ha affermato Hugh Lovatt. «Il minimo errore riguardante la morte di civili avrebbe potuto spingere Hamas di prendere parte ai combattimenti e ribaltare il conflitto», osserva tuttavia Denis Charbit, politologo della Open University di Israele.
Attaccare Benjamin Netanyahu alla sua destra
Allora, cosa stava cercando Israele lanciandosi in una guerra a Gaza? La risposta si trova nella politica, come spesso accade quando si parla dell’enclave costiera. Il neo-primo ministro Yair Lapid, in carica da meno di due mesi, ha intenzionalmente messo Israele in massima allerta per uno scontro militare allo scopo di rafforzare la sua posizione politica in vista delle imminenti elezioni generali israeliane, previste per il primo novembre», sostiene l’analista politico Meron Rapoport sul sito Middle East Eye.
Contattato sabato 6 agosto, mentre l’esito del conflitto era ancora imprevedibile, Denis Charbit ha analizzato così la situazione: «Se entro 24 o 48 ore Israele annuncia di aver terminato la sua operazione e Hamas non si è mossa, sarà una doppia vittoria per Yair Lapid e Benny Gantz, il suo ministro della Difesa. Mentre l’attuale governo ad interim è classificato come “di sinistra”, percepito come moderato e legato mani e piedi dalla presenza del partito arabo, potrà giocare sul fatto che ha sparato per primo e ha continuato a difendere i cittadini israeliani fino alla fine», spiega il professore di scienze politiche prima di concludere: «È un modo per attaccare Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud, più legato alle questioni di sicurezza, alla loro destra: prendendo l’iniziativa hanno osato dove Netanyahu non aveva mai osato agire».
I gazawi restano l’eterno «danno collaterale» di questi attacchi. «Il disgusto regna tra la popolazione – racconta a terresainte.net padre Gabriel Romanelli, parroco della parrocchia latina di Gaza –. Nell’anno trascorso, la distribuzione di 14mila permessi di lavoro e l’inizio di un miglioramento della situazione, dimostrano che a Gaza è possibile una vita senza violenza».