Padre Nikodemus Schnabel – monaco benedettino dell’Abbazia della Dormizione, sul Monte Sion – ci riceve nel suo piccolo ufficio in Lloyd Street, nella German Colony di Gerusalemme. Lo raggiungiamo con leggero anticipo; lui arriva di corsa, puntualissimo, ma si scusa per essersi fatto attendere. Dopo averci offerto acqua e caramelle, che puntualizza essere tedesche, si infila l’abito monastico e ci fa accomodare per rispondere alle nostre domande.
Padre Nikodemus è trascorso un anno dalla sua nomina a responsabile del Vicariato per i migranti e i richiedenti asilo del Patriarcato latino di Gerusalemme. Può farci un primo breve bilancio di questi primi 12 mesi?
Credo che se dovessi usare una parola per definire questo mio primo anno di lavoro, direi “intenso” (sorride). Il mio, peraltro, è un ruolo nuovo perché il mio predecessore, padre Rafiq Nahra, si occupava dei migranti e dei richiedenti asilo insieme con i cattolici di espressione ebraica. Io sono il primo ad occuparmi esclusivamente dei migranti e dei richiedenti asilo. Ciò ha implicato trovare nuove strutture e nuovo personale e far fronte a nuove sfide. Ma anche vivere nuove e meravigliose liturgie, confessioni, incontri, colloqui…
Facciamo dunque un passo indietro, parliamo di come nasce il Vicariato per i migranti e i richiedenti asilo (Vmra), in risposta all’invito che papa Francesco ha rivolto alle Chiese locali perché accolgano, proteggano, promuovano e integrino le sorelle e i fratelli migranti e richiedenti asilo nella vita della Chiesa e della società in generale.
Sì. Sono molto grato che il patriarca Pierbattista Pizzaballa, abbia colto questa occasione per creare il Vmra nella diocesi latina di Terra Santa. Creare un sesto vicariato, accanto a quelli per Cipro, Israele, Giordania, Palestina e per i cristiani di lingua ebraica è stata un’intuizione vincente, figlia di una visione profetica. Questo nostro nuovo vicariato ha la stessa dignità di tutti gli altri. E marca una decisa presa di posizione.
Come sintetizzerebbe la missione svolta finora?
In estrema sintesi, la mia missione è stata, ed è, rendere visibile l’invisibile.
A cosa si riferisce?
Penso al dato sulla presenza dei nostri fedeli. Sono tanti, distribuiti in tutto il Paese, ma non facilmente quantificabili. È una presenza viva e numerosa. Parliamo di oltre 100mila persone, quasi la metà della presenza cristiana di tutta la diocesi. Eppure, molti dubitano di queste cifre perché non li vedono o perché le stime ufficiali ne contano molti di meno. La mia sfida è rendere visibile l’invisibile perché, sapete, la mia gente non è interessata a presentarsi o a registrarsi a causa della condizione e delle circostanze in cui si trova a vivere.
Mi spiego meglio. I richiedenti asilo di cui ci occupiamo vengono soprattutto dall’Eritrea e dal Nord dell’Etiopia. I migranti invece, rappresentano una realtà molto più complessa e variegata. Non si può dire che basta conoscere un migrante per aver presenti le peculiarità di tutti gli altri. Tra noi ci sono migranti dalle Filippine, dall’India, dallo Sri Lanka, dall’Africa anglofona e francofona, dall’America Latina, dalla Cina, dalla Romania, dall’Ucraina… Molti di loro sono lavoratori, spesso irregolari: alcuni sono clandestini perché il visto d’ingresso [in Israele] è ormai scaduto; altri sono queue jumpers, giunti qui come turisti e poi rimasti [irregolarmente] per lavorare.
Ognuno di questi gruppi si misura con sfide diverse. All’interno della cappellania indiana, ad esempio, ci sono diverse comunità, ciascuna con criticità differenti. In seno alla comunità cinese c’è la paura del braccio lungo del governo di Pechino; nella comunità latinoamericana tanti sono irregolari e ogni giorno hanno paura che lo Stato di Israele li rimpatri. E così via.
Sotto il profilo demografico, a quanto pare, questa popolazione cresce molto più velocemente di quella degli arabi cristiani. In un’ottica di medio-lungo periodo, diciamo 10-15 anni, saranno forse la prima realtà cristiana in Terra Santa? Che sfide incontrate e come vi fate fronte?
La principale sfida per questi miei fratelli e sorelle – molto spesso li chiamo “miei” perché sento di doverli proteggere e di dover lottare per loro, in quanto sento di essere il loro principale lobbista, perché non molti altri parlano per loro –, la sfida principale, dicevo, è che non hanno stabilità. Per cui anche il dato demografico, per quanto positivo, se visto in prospettiva non ha molta rilevanza. Israele ha interesse a che i migranti [economici] cambino. Mediamente, ogni cinque anni si ha una turnazione completa. Quando nascono, i figli di queste persone vengono considerati come irregolari; quando crescono, non possono sposarsi qui. C’è una vera e propria infrastruttura giuridica che impedisce loro di stabilirsi qui. Dobbiamo essere realistici: questi migranti non sono il futuro immediato della Chiesa cristiana in Terra Santa. Sono una realtà importante, senz’altro, ma i membri di questa comunità restano qui cinque anni, alcuni dieci, massimo venti. Nel mio periodo di permanenza qui, ho avuto molti battesimi, matrimoni, cresime, prime comunioni e solo un funerale. Queste persone non fanno in tempo a morire qui. Sono di passaggio. È mio compito dare loro una casa lontano da casa.
Riguardo alle sfide e a come le affrontiamo: cerchiamo di far emergere le seconde generazioni, i bambini. Abbiamo quindici asili nido che si occupano di più di cento bambini. Sosteniamo le madri single che non sanno dove tenere i figli. Se predichiamo che bisogna dire sì alla vita, come Chiesa, penso che poi si debbano trarre le logiche conseguenze. Abbiamo dei centri di doposcuola a Tel Aviv e Gerusalemme. La maggior parte dei bambini non hanno un padre, e la madre non è in grado di prendersi cura di loro. Quindi ce ne occupiamo noi, 24/7. Queste sono le attività principali, ma andiamo anche nelle carceri perché anche lì ci sono persone [da accompagnare]. Esprimiamo ogni tipo di attività ecclesiale per raggiungere la gente. Dal nord al sud di Israele celebriamo la messa in circa quaranta luoghi diversi. Molto spesso le chiese non ci sono e allora di frequente affittiamo sale da basket, palestre, asili. Sì, celebriamo la messa nei posti più improbabili che possiate immaginare e ad orari molto strani, per esempio il martedì alle dieci di sera o il sabato a mezzogiorno!
Rispetto ai cristiani locali, il mio impegno è che loro vedano che ci sono nuove sorelle e nuovi fratelli. Se riuscissimo a creare un senso di appartenenza, questo potrebbe cambiare entrambe le parti: i cristiani autoctoni, che sono qui da secoli, e i nuovi arrivati.
Quello che descrive è un panorama veramente vario. Per lei è possibile parlare di una unica Chiesa di Gerusalemme o è meglio considerare diverse Chiese?
Ciò ha a che fare con la vocazione fondamentale di Gerusalemme, quella di essere cioè Chiesa universale, che appartiene a ogni battezzato. Nessun fedele al mondo può dire che non gli interessi la Città Santa, perché la Bibbia è piena di riferimenti a questa città; Gesù stesso ha qui predicato, vi è stato crocifisso ed è risorto dai morti. È un luogo centrale per la nostra fede. D’altra parte, Gerusalemme non è solo universale. Ci sono cristiani che vivono proprio qui e che ne fanno anche una Chiesa locale. Penso che Gerusalemme sia proprio la miscela tra queste due dimensioni: locale e universale. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra.
Aggiungo: Gerusalemme è stata sempre un luogo di pellegrinaggio per fedeli e religiosi. Io sono un benedettino tedesco, ma qui come sapete, ci sono francescani italiani, domenicani francesi, gesuiti americani… È noto il desiderio della gente di essere a Gerusalemme. E ora abbiamo nuovi volti: persone che non hanno – sarò molto schietto – il privilegio di venire qui come pellegrini, o come monaci e suore, ma hanno la sola possibilità di essere qui come schiavi moderni. Penso che sia giunta l’ora di accogliere questa nuova espressione di cristianesimo.
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