Rischiano di scomparire per sempre, a causa di un'enorme miniera di rame sfruttata dai cinesi, le vestigia di un'antica città buddhista che fu centro strategico negli scambi commerciali, intellettuali, religiosi tra Oriente e Occidente lungo la Via della seta.
Uno dei siti archeologici più suggestivi e importanti del mondo rischia di scomparire per sempre in Afghanistan. Cinesi e talebani hanno deciso di avviare lavori minerari nella montagna su cui sorge e salvo ripensamenti dell’ultima ora le vestigia saranno inghiottite. Parliamo di Mes Aynak, antica città buddhista risalente a duemila anni fa, centro strategico negli scambi commerciali, intellettuali, religiosi tra Oriente e Occidente lungo la Via della seta. Dai suoi templi, monasteri e case il buddhismo si irradiò nell’Asia Centrale; per le sue strade, diretti ad Est, passarono artisti ellenistici e missionari cristiani.
L’enciclopedia Treccani la definisce il simbolo della “Grande Bellezza” afghana, ma la sorte ha voluto che Mes Aynak fosse adagiata su una montagna di rame a una quarantina di chilometri da Kabul. Nel 2007 un consorzio di imprese cinesi – guidato dalla China Metallurgical Group Corporation – ha siglato un contratto trentennale di 3 miliardi di dollari con l’allora governo filo-americano del presidente Hamid Karzai per sfruttare il giacimento, il secondo al mondo per dimensioni. Negli ultimi quindici anni, tutto è rimasto fermo a causa dell’insicurezza dell’area e per divergenze su alcuni passaggi finanziari tra Pechino e le autorità di Kabul.
Con la reconquista talebana dell’Afghanistan nel 2021, il progetto è stato rapidamente risuscitato. Sotto embargo internazionale e in una situazione di totale miseria per la popolazione locale, i talebani sono a caccia di investimenti e di capitali stranieri. In queste settimane – riferisce il portavoce del ministero delle Miniere e del Petrolio, Esmatullah Burhan, ripreso dai media regionali – cinesi e afghani hanno concordato sull’80 per cento del progetto operativo; mancano solo i “dettagli tecnici” e si vuole concludere presto, senza rinvii ulteriori. Lo sfruttamento immediato della montagna di rame è una assoluta priorità, ha detto Burhan. Porterebbe infatti nelle casse vuote del regime, già a partire dai prossimi mesi, circa 300 milioni di dollari all’anno: una boccata d’ossigeno di vitale importanza.
Nessuno sembra preoccuparsi troppo di Mes Aynak. I talebani, dopo aver traumatizzato il mondo nel marzo del 2001 con la distruzione dei Buddha di Bamiyan, fanno sapere di essere pronti, stavolta, «ad offrire la migliore protezione possibile al sito archeologico buddhista, perché non sia danneggiato dai lavori minerari». Di cosa si tratti non si sa, visto che il compito sarà affidato al ministero della Cultura, un dicastero che non è in grado – secondo gli archeologi internazionali che seguono con angoscia la vicenda – di gestire l’immenso patrimonio di Mes Aynak. A non farsi illusioni è il responsabile del dipartimento dei Monumenti storici, Jalat Surkhabi intervistato sulla cima della montagna di rame dall’agenzia di notizie e video iraniana Fararu. «Il lavoro di miniera non è delicato. Avranno bisogno di far saltare parti del massiccio montano. Le esplosioni saranno violente e distruggeranno le strutture e le statue della città buddhista», afferma. Inoltre «i cinesi vogliono lavorare a cielo aperto, piuttosto che attraverso tunnel sotterranei. In questo modo squarceranno la montagna e seppelliranno il sito archeologico».
Dopo la sua epoca d’oro, Mes Aynak decadde e venne dimenticata per secoli, nascosta da imponenti picchi rocciosi tra le distese montuose della regione afghana del Logar. A riscoprirla, ad inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, fu un geologo francese, senza però che il sito venisse adeguatamente protetto negli anni successivi da saccheggi e vandalismi. Nonostante ciò, i primi archeologi afghani e occidentali, che cominciarono a lavorare in loco ad inizio del XXI secolo dopo la caduta dei talebani, rimasero increduli di fronte a ciò che riemergeva dalla polvere: monasteri buddhisti, stupa, fortezze, edifici per uffici e case, centinaia di sculture, dipinti murali, ceramiche, monete e manoscritti, oltre che reperti di insediamenti precedenti, databili al neolitico.
Per gli esperti, Mes Aynak, è paragonabile – per le sue dimensioni, per le storie che racconta, per il suo patrimonio – a luoghi come Pompei o Machu Picchu. Missioni francesi e italiane hanno tenuto i cantieri aperti – insieme ai colleghi afghani – fino al luglio dello scorso anno, mentre i talebani si riprendevano l’Afghanistan. Circa la metà delle opere ritrovate finora sono state trasferite nel museo di Kabul. L’altra metà è rimasta vicina al sito: si tratta di statue e oggetti troppo ingombranti o troppo fragili per essere spostati. In questa situazione Mes Aynak aspetta il suo destino, scritto dagli errori politici, dalla violenta storia del Paese, dagli interessi economici e dall’ignavia di molti.