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Libano, il tempo lungo del cambiamento

Lorenzo Trombetta
18 luglio 2022
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Libano, il tempo lungo del cambiamento
Beirut, 24 maggio 2022: attivisti presso la barriera di separazione eretta per impedire ai manifestanti di avvicinarsi al Parlamento libanese. (foto Epa/Wael Hamzeh)

A metà maggio i libanesi hanno eletto il nuovo Parlamento, ottenendo alcuni limitati cambiamenti politici. Ma a livello economico il Paese permane in una crisi senza sbocchi nell’immediato e con una società sempre più divisa e in sofferenza. Il racconto da Beirut di uno storico e giornalista.


Sono passati tre anni dal palesarsi della crisi finanziaria libanese, la peggiore della sua storia. E il collasso di un Paese, considerato al centro degli equilibri mediorientali, si misura non solo tramite l’esercizio di elencare le cifre più sbalorditive del fallimento bancario e quelle delle sue conseguenze disastrose, registratesi nell’arco di un tempo breve: la lira, la valuta libanese, ha perso più del 95 per cento del suo valore rispetto al dollaro e più dell’80 per cento della popolazione residente vive in povertà.

Il baratro libanese, che non sembra avere un fondo dal quale risalire, è raccontato in una nuova distopica quotidianità, fatta di famiglie che non usano più l’acqua calda perché la corrente elettrica in molte aree è quasi inesistente; che rimandano sine die visite mediche di controllo e che rinunciano ad almeno un pasto al giorno perché non ci sono soldi; che non usano più la propria auto – in un Paese in cui i mezzi di trasporto pubblico sono tradizionalmente molto carenti – perché la benzina è troppo cara.

Nel remoto Akkar, la regione nel nord-est del Libano al confine con la Siria e nota ben prima della crisi economica per essere una delle aree più impoverite, gran parte delle verdi colline hanno il dorso brullo, perché gli alberi sono stati decimati da boscaioli improvvisati alla ricerca di legna da ardere. E i casi di epatite A nella vicina regione di Tripoli sono aumentati in maniera esponenziale nel secondo trimestre di quest’anno a causa dell’aumento di intossicazione alimentare dovuta all’ingestione di carne avariata, mal conservata in frigoriferi sempre meno funzionanti, e di acqua contaminata dalla mala-gestione delle falde e dei canali.

Tutti i segni della disperazione

L’elenco degli effetti della crisi nel breve e nel medio termine è assai più lungo e articolato e finisce per coinvolgere ogni ambito della vita collettiva e individuale di chi abita questo territorio ancora così ricco di risorse, ma esposto a una sofferenza crescente, da cui scaturiscono una rabbia e una tensione sociale sempre maggiori. Gli episodi di violenza, a sfondo familiare e clanico, sono aumentati in maniera impressionante in diverse regioni del Paese, in particolare in quelle aree dove si fa più aspra la guerra per l’accaparramento dei servizi, intesi come privilegi e regalie concessi dalle élite politiche. Sono aumentati di gran lunga i suicidi e i tentati suicidi: alcuni casi sono stati illuminati dai riflettori dei media perché compiuti appositamente in luoghi-simbolo del potere e del benessere (nel centro di Beirut, o di fronte a una banca) come a sottolineare il contrasto tra la disperazione di chi si dà fuoco e l’indifferenza di chi continua ad arricchirsi sulla sofferenza altrui; altre persone si sono tolte la vita nel silenzio generale, fuori da un campo profughi, nella propria casa, su una spiaggia di notte. Il numero di libanesi, palestinesi e siriani – tutti residenti in Libano – che hanno tentato la via di fuga per il mare è aumentato in questi ultimi tre anni. E dopo che le élite politiche libanesi hanno rafforzato i controlli, coordinandosi con le autorità della vicina isola di Cipro, membro dell’Unione Europea, i viaggi della disperazione sono assai più rischiosi: a metà aprile, almeno due intere famiglie di libanesi impoveriti sono state inghiottite dal Mediterraneo a poche miglia dalla costa di Tripoli.

In quel giorno di aprile, a meno di cento chilometri di distanza, nella capitale Beirut, era difficile trovare un tavolo libero nei ristoranti aperti in centro e nelle vie della movida notturna. Valletti, incoraggiati da mance in dollari, si affrettavano ad aprire le portiere agli avventori dei locali e a parcheggiare le loro auto di lusso, ancora umide dal passaggio delle spugne agitate sulle fiancate e sui parabrezza dai lavoratori immigrati asiatici, impiegati sottocosto nell’autolavaggio poco lontano.

All’interno di molti ristoranti il menù non ha più la colonna dei prezzi: troppo costoso aggiornare continuamente i prezzi fluttuanti in lire libanesi. E solo alcune settimane fa, a fine maggio, il ministero del Turismo libanese ha concesso a ristoranti e strutture turistiche di esporre i prezzi in dollari. Questo in vista di un’estate che in molti sperano sia portatrice di ingenti rimesse, in valuta pesante, dai libanesi della diaspora. Dopo le due estati precedenti, segnate dalla pandemia e dalla devastante esplosione del porto di Beirut (4 agosto 2020: più di 250 uccisi, 6.500 feriti, un terzo della città distrutta), l’intero sistema politico ed economico libanese, fortemente in crisi, spera in una boccata di ossigeno dall’esterno. E questo perché all’orizzonte non si intravede nessun accordo definitivo tra le autorità libanesi e il Fondo monetario internazionale (Fmi) e, dunque, nessun sostegno finanziario di rilievo da parte della comunità occidentale al disastrato Libano.

Qualche segno di trasformazione politica

La soluzione alla crisi libanese non si trova però in nessuna pozione magica. Né ci si può aspettare che un demiurgo venuto da lontano agiti la sua bacchetta magica e annulli come per incanto gli effetti di una sedimentata mala-gestione politica radicata nella storia moderna e contemporanea di questo Paese mediterraneo, grande come l’Abruzzo e a sole tre ore di volo dall’Italia. Allo stesso modo, nonostante le voci che invocano il cambiamento si siano fatte sempre più insistenti in questi tre anni di crisi, caratterizzati da stagioni di periodiche forme di proteste politiche popolari a Beirut e in altre regioni del Paese, non ci si può aspettare che la riforma del sistema politico avvenga con una spallata di popolo all’oligarchia al potere o con uno scossone elettorale, come in alcuni speravano succedesse alle recenti elezioni legislative del 15 maggio scorso. Queste consultazioni hanno comunque fornito la conferma che il processo di trasformazione politica è in corso: per la prima volta, alcuni dinosauri del sistema parlamentare, simbolo dell’élite tradizionale, sono stati sconfitti da neoeletti esponenti di un variegato – quanto frammentato – fronte del cosiddetto cambiamento, espressione delle proteste scoppiate a Beirut nell’ottobre del 2019, in corrispondenza col palesarsi della crisi bancaria. L’equazione politica è ancora a favore di una maggioranza di deputati che sostengono lo statu quo, incarnato tra gli altri dall’inamovibile presidente del parlamento Nabih Berri, ex signore della guerra e considerato un elemento di stabilità istituzionale da molti interlocutori dentro e fuori il Libano, nelle cancellerie d’Oriente e in quelle d’Occidente.

In questo senso c’è da ricordare che Berri è solo uno dei membri della cupola di leader di formazioni politico-confessionali. Queste appaiono ideologicamente rivali, ma sono invece unite ai vertici del sistema da una prolungata e solida convergenza di interessi: rimanere al potere per spartirsi la lucrosa gestione delle risorse e l’opera di distribuzione dei servizi, inclusi quelli essenziali, intesi come concessioni, su base clientelare, esclusiva, comunitaria, verso i subalterni.

Le divisioni confessionali, gli alibi del potere

Al di sotto di questa cupola la società è divisa al suo interno in maniera verticale secondo linee confessionali. Il collegamento verticale tra un basso (subalterni) e un alto (élite) è ogni giorno ribadito dalla capacità delle diverse formazioni politico-confessionali di distribuire su base clientelare-comunitaria-familiare. Dall’alto verso il basso ci sono diverse articolazioni composte da intermediari di vario livello e di capacità diverse che costituiscono le vertebre delle diverse spine dorsali del sistema. L’appartenenza non è però solo religiosa, ma anche territoriale (localismo) e clanica-familiare. Ci sono poi altre forme di coesione sociale relative alla comune appartenenza professionale (avvocati, medici, insegnanti, militari); analogamente, i sindacati non sono organismi trasversali su scala nazionale, ma riflettono i diversi legami territoriali e locali. Questa divisione verticale e questo collegamento dal basso verso l’alto tra la base e i vertici di ciascuna comunità religiosa e politica si esprime chiaramente nella legge elettorale con cui si è andato al voto lo scorso maggio: nel modo in cui sono assegnati i seggi in parlamento secondo una bizantina spartizione confessionale; nel modo in cui sono stati disegnati i distretti elettorali, per far sì che siano distretti a livello comunitario il più omogenei possibili in modo da essere delle roccaforti di quel partito o di quell’alleanza di partiti; nel modo in cui gli aventi diritto al voto si devono recare alle urne: non nel luogo di residenza ma nel luogo di origine (le donne, una volta sposate, passano nello stato di famiglia del marito e devono votare nel distretto del marito), così da mantenere congelata la composizione confessionale a dispetto di un cambiamento demografico molto significativo, alla luce dei ripetuti sfollamenti di popolazione durante il conflitto civile (1975- 90), dello svuotamento delle zone rurali in favore delle aree urbane. Il mosaico, di cui in tanti vanno fieri in Libano, è trasformato in una trappola. Nonostante le elezioni legislative del 2022 non abbiano dato nessuna spallata al sistema egemonico, questo mostra evidenti segni di crisi. Prima di tutto nella sua capacità di raccogliere consenso popolare. Per cui, anche nelle roccaforti dei partiti ideologici e religiosi dotati di una macchina politica capillare e ben oleata, si avverte un malcontento e una disaffezione al leader di turno crescenti. Di fronte a questa tendenza, visibilmente in crescita in molte aree, le élite tradizionali insistono nel riattivare i meccanismi di controllo sulle rispettive comunità, mobilitando pratiche e retoriche tese a mostrare la minaccia imminente proveniente dall’esterno: una nuova guerra con Israele, evocata più volte tra la fine di maggio e gli inizi di giugno da Hezbollah; oppure il pericolo di attentati terroristici perpetrati da sedicenti jihadisti collegati all’Organizzazione dello Stato islamico. Queste e altre note tecniche alimentano una strategia della tensione mirata a conservare il potere in un contesto di crisi egemonica. Il tempo in Libano non appare maturo per un cambiamento immediato, ma il processo di trasformazione, sebbene abbia tempi lunghi, è in corso.

Terrasanta 4/2022
Luglio-Agosto 2022

Terrasanta 4/2022

Il sommario dei temi toccati nel numero di luglio-agosto 2022 di Terrasanta su carta. Al centro il Dossier dedicato alle problematiche ecologiche che, nelle terre bibliche, affliggono il Mar Morto e il fiume Giordano. Buona lettura!

I contenuti extra di <i>Terrasanta</i>
la redazione

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Non si uccide così il Mar Morto
la redazione

Non si uccide così il Mar Morto

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