Non si spegne l’indignazione per l’omicidio, lo scorso 11 maggio, della reporter di Al Jazeera Shirin Abu Akleh. Palestinese con cittadinanza statunitense, confidava: «Ho scelto questo mestiere per stare vicino alla gente e far sentire la sua voce».
Era quasi un’icona, un simbolo della ricerca di giustizia e di emancipazione per milioni di donne palestinesi. L’uccisione, l’11 maggio scorso, della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, palestinese con cittadinanza statunitense; il brutale intervento della polizia israeliana durante il suo funerale e l’auto-assoluzione da parte dell’esercito israeliano, che non ravvisa elementi di reato da parte dei suoi uomini eventualmente coinvolti nella morte della giornalista, hanno fatto da detonatore alla frustrazione degli arabi in Israele e in Cisgiordania culminata negli scontri a margine della controversa Marcia delle Bandiere nei giorni scorsi a Gerusalemme e nelle proteste nelle università israeliane.
Reporter molto amata
Nata nell’aprile 1971 a Gerusalemme est in una famiglia cattolica, Shireen aveva inizialmente intrapreso gli studi di Architettura per poi virare sul giornalismo all’università Yarmouk in Giordania. Dopo la laurea aveva iniziato a lavorare per diverse testate, dalla radio Voice of Palestine al canale satellitare giordano Amman. Era stata assunta da Al Jazeera nel 1996, appena un anno dopo l’apertura dell’emittente televisiva qatariota, diventando la corrispondente di punta sul fronte del conflitto israelo-palestinese e acquisendo grande popolarità dall’inizio degli anni Duemila per la professionalità e acutezza dei suoi servizi giornalistici durante la Seconda intifada (2000-2004). Al punto da diventare, in tutto il mondo arabo, un volto-simbolo della tivù qatariota. «Ho scelto il giornalismo per stare vicino alla gente. Magari non cambierò la realtà, ma avrò portato al mondo la sua voce», aveva detto alcuni anni fa in un’intervista.
Il suo volto era divenuto familiare a centinaia di migliaia di arabi israeliani negli anni precedenti alla creazione e diffusione dei social media, quando Al Jazeera era la più potente fonte di informazioni dal mondo arabo. Anche così si spiega l’onda di emozione e di indignazione che nei giorni del lutto ha travolto le principali città miste israeliane, portando in strada decine di migliaia di persone da Haifa a Umm-al-Fahm, da Nazaret a Shfaram. La gente ha sentito il bisogno di rendere omaggio a una donna che era stata al suo fianco per decenni; la sua morte violenta ha portato ancora più persone ad identificarsi con il dolore della sua famiglia.
«Ispirava tutti noi»
I suoi colleghi la ricordano per la «risata contagiosa», per la gentilezza e il coraggio con cui ha dato voce alla lotta dei palestinesi nel corso dei suoi trent’anni di impegno professionale. «È una perdita immensa per tutti noi: aveva una grande capacità di scavare nelle storie, coglierne le sfumature – ha raccontato Nida Ibrahim, collega di Al Jazeera nei Territori occupati in Cisgiordania – e sapeva aggiungere tantissime informazioni ai suoi reportage. Era una persona unica, che pur essendo diventata molto famosa aveva conservato la modestia». Shireen aveva mantenuto la curiosità di imparare e di tenersi aggiornata. Anche per questo, ha raccontato l’amica e collega, negli ultimi anni aveva appreso l’ebraico «per poter capire sempre meglio le narrazioni diffuse dai media israeliani sul conflitto israelo-palestinese e aveva imparato ad usare nuovi strumenti del giornalismo digitale. Era un’ispirazione per tutti noi».
Le indagini e il ruolo degli Usa
Nei giorni scorsi il procuratore generale palestinese Akram al-Khatib ha chiuso le indagini dichiarando di avere le prove che l’esercito israeliano abbia intenzionalmente sparato sulla cronista. Il segretario di Stato Anthony Blinken aveva assicurato che gli Stati Uniti avrebbero chiesto con forza di conoscere la verità sulla morte violenta della cronista che aveva anche la cittadinanza statunitense. Ma nell’incertezza della visita del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Medio Oriente – che si sarebbe dovuta svolgere a fine mese prima del G7 in Germania del 26-28 giugno, ma nei giorni scorsi è stata rimandata a luglio – il timore dei palestinesi è che l’amministrazione Biden rinunci ad esercitare qualsiasi tipo di pressione sull’esecutivo israeliano per non far cadere il governo Bennett. Una cosa è certa: il segno che questa popolarissima reporter 51enne ha lasciato nell’opinione pubblica palestinese e in quella arabo-israeliana non svaniranno in poco tempo.