Sono le otto di sera, ululano le sirene. Nelle piccole stanze dell’ufficio di Betlemme dell’associazione Combattenti per la pace (Combatants for Peace), israeliani e palestinesi si alzano in piedi per osservare un minuto di silenzio, in omaggio ai soldati israeliani morti per il loro Paese. Si apre così il Giorno della Memoria (Yom HaZikaron), sul calare del 3 maggio, con una cerimonia atipica che ha per teatri Tel Aviv e Beit Jala, un sobborgo di Betlemme.
Riunisce, per la diciassettesima volta, israeliani e palestinesi in lutto convinti che solo la non violenza e la comprensione reciproca porranno fine a morti inutili. Condividere il dolore per portare speranza è l’obiettivo di questa cerimonia congiunta, che ogni anno suscita reazioni ostili nella società israeliana.
Una cinquantina di persone provenienti dall’area di Gerusalemme, per lo più palestinesi e internazionali, si sono riuniti per partecipare da qui alla cerimonia che viene trasmessa in video da un teatro di Tel Aviv dove sono radunate altre 200 persone. Intorno, i musulmani celebrano la festa di Eid al-Fitr, la fine del Ramadan.
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Voluto dal primo ministro Ben-Gurion nel 1950, il Giorno della Memoria onora i soldati morti per Israele. Fissata per il 4 del mese ebraico di Iyar (una data mobile che oscilla di anno in anno tra metà aprile e metà maggio del calendario gregoriano), questa commemorazione precede di un giorno la Festa dell’Indipendenza di Israele, sancita il 14 maggio 1948.
Costruire una nuova narrativa
Con la loro cerimonia israelo-palestinese, le associazioni co-organizzatrici (Combatants for peace e Parents Circle) vogliono offrire un’alternativa alle cerimonie commemorative ufficiali, che secondo loro «giustificano lo status quo politico, affermando un nazionalismo militarizzato e una narrazione ristretta e unilaterale». L’evento si presenta come un «omaggio alle vite perse nel conflitto da entrambe le parti, che aiuta a costruire una nuova narrazione: il rifiuto della violenza, l’occupazione e l’adozione di un altro percorso».
L’iniziativa nasce nel 2006 da Buma Inbar, un israeliano il cui figlio, Yotam, sergente della Brigata Golani, morì nel 1995 per un incidente «inutile e imperdonabile» durante un’operazione militare in Libano. Piuttosto che la via della vendetta e della violenza, Buma ha scelto la via della pace e ha dedicato la sua vita all’azione comune non violenta e alla lotta per porre fine all’occupazione. Nonostante l’organizzazione della cerimonia sia passata alle due ong, lo spirito rimane immutato: ricordare che la guerra porta solo altra guerra, distruzione e dolore.
Buma Inbar è il primo a intervenire. Ha un groppo in gola e le lacrime agli occhi. «È vergognoso – dice – che la santità delle pietre e della terra, che non ci appartengono, superi la santità della vita. […] Quanto tempo ci vorrà, quanti figli che muoiono da entrambe le parti, perché si giunga alla pace nella regione?». Conclude chiedendo la fine dell’occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi.
Una scatola di fazzoletti
Dopo di lui, per un’altra ora, le testimonianze si susseguono. C’è Nasreen Abu al-Jadian, un’abitante della Striscia di Gaza che ha perso il marito in un bombardamento nel 2009, e la famiglia di suo fratello in un altro nel 2014. Lei ora vuole seminare i semi di una mentalità più pacifica nella Striscia di Gaza. C’è Masha Litvak, israeliana, il cui padre è stato ucciso 7 mesi dopo la sua nascita nel 1948 e il cui fratello maggiore è morto durante un’esercitazione militare della riserva.
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C’è Ismail Khatib, di Jenin, il cui figlio Ahmad, 12enne, fu colpito alla testa mentre giocava all’esterno. All’ospedale di Haifa, quando Ahmad è appena morto, il medico suggerisce di donare i suoi organi per salvare vite umane. Ismail Khatib acconsente. Il suo gesto salverà sei bambini palestinesi e israeliani.
Nella stanza circola una scatola di fazzoletti. Le lacrime rigano i volti di molti presenti. «Vincere la voglia di vendetta dopo tutto questo… È forte», mormora una spettatrice, d’origine tedesca.
Ben poco popolare negli ambienti della destra israeliana che parla di «tradimento», l’evento si è svolto in un luogo sconosciuto a Tel Aviv. Negli anni precedenti venivano organizzate manifestazioni ostili all’ingresso delle sale teatrali dove si svolgevano le cerimonie. Dallo scoppio della pandemia di Covid-19, nel 2020, sono stati trasmessi online e visionati da quasi 200mila persone in tutto il mondo.
L’annuncio della partecipazione di Rivka Michaeli, rinomata e popolare attrice israeliana, alla diciassettesima edizione della cerimonia ha suscitato un’ondata di indignazione su Internet. L’attacco più importante arriva dal rapper di estrema destra The Shadow, ossia Yoav Eliasi: «Perché partecipi a un evento di oltraggio in memoria dei nostri guerrieri, che hanno sacrificato la loro vita per te?» ha pubblicato su Facebook, sottolineando che con il suo gesto, l’attrice avrebbe messo i soldati israeliani «nella stessa categoria dei terroristi che uccidono bambini e che cercano di distruggerci».
«Un giorno ci rappresenta a fondo»
«Questo Giorno della Memoria rappresenta al meglio il fatto di essere israeliani: valorizza il soldato, il combattente, il maschile. Questo giorno ci rappresenta così tanto noi che ogni tentativo di farne qualcos’altro, di sostituire la memoria con un’altra narrazione, anche il semplice e innocente tentativo di piangere insieme, come questa sera, indebolisce l’identità e il potere politico in Israele. E noi che qui cerchiamo di offrire una diversa esperienza commemorativa, siamo designati come “traditori”», osserva Yuli Novak, di fronte all’assemblea riunita a Tel Aviv.
Figura di spicco della sinistra israeliana, la quarantenne ex presidente dell’associazione Breaking the Silence (Rompere il silenzio) – che denuncia l’occupazione militare dei Territori palestinesi – ha dovuto lasciare il Paese dopo aver subito una campagna di vessazioni guidata dall’estrema destra.
Da Beit Jala ha preso la parola anche Huda Abu Arqoub, direttrice palestinese dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente (Alliance for Middle East Peace – Allmep), invitando a ripensare la pace non solo in termini di convivenza, ma di “co-resistenza”: «Il sistema chiede che siamo nemici e vuole uccidere il nostro senso di umanità. Questo sistema si nutre di vittimizzazione, costruisce muri e prigioni, polarizza e oppone. Insieme, possiamo lavorare per la speranza, la resilienza, la fermezza e una vita dignitosa per tutti. E possiamo schierarci contro coloro che rifiutano di schierarsi, cercano giustizia, pace e uguaglianza, o che favoriscono un essere umano rispetto a un altro. La nostra responsabilità è costruire un luogo di pace in modo che i nostri figli possano prosperarvi», afferma l’attivista, con la voce rotta.
La serata si è conclusa con l’invito a ritrovarsi nuovamente il 15 maggio, nel giorno della Nakba, che commemora la «catastrofe» palestinese determinata dalla creazione dello Stato di Israele.