Far tacere le armi non è ancora costruire la pace: e non può esserci stabilità in Yemen se le donne non fanno parte dei negoziatori. Ne è certa Kawkab Al-Thaibani, confondatrice della rete Women4Yemen e tra le autrici di un rapporto sulle donne nei negoziati di pace.
In Yemen le donne e le organizzazioni della società civile da sole non possono risolvere il conflitto fra i ribelli Huthi filoiraniani e la coalizione guidata da Arabi saudita ed Emirati arabi uniti che in otto anni ha provocato 380mila vittime e quattro milioni di sfollati interni, al 75 per cento donne e bambini, oltre a 20 in grave emergenza umanitaria. Agli scontri di bassa o alta intensità «porranno fine, almeno temporaneamente, gli uomini che guidano la lotta sul terreno». Ma non è solo questione di graduale disarmo poiché «porre fine al conflitto armato non è costruire la pace. E non può esserci pace duratura in Yemen senza il coinvolgimento delle donne nei negoziati di pace» dice lapidaria Kawkab Al-Thaibani, co-fondatrice della rete di attiviste Women4Yemen.
«Per essere efficace la pace deve includere le donne»
Tra le autrici dell’ultimo rapporto sulla partecipazione delle donne ai processi di pace stilato dal Centro di Ginevra per la promozione dei diritti umani e il dialogo globale (Geneva Centre for Human Rights Advancement and Global Dialogue), in una recente conferenza online la giornalista ha elencato una serie di raccomandazioni su che cosa potrebbe rendere efficace la tregua di 60 giorni avviata nel Paese lo scorso 2 aprile con la mediazione dell’Onu. «Primo: il governo e i partiti politici – dice – devono includere le attiviste della società civile nei negoziati. Secondo: le organizzazioni di donne devono avere accesso ai finanziamenti dei donatori internazionali per poter rispondere ai bisogni delle comunità, poiché la prospettiva comunitaria è importante sia per i diritti umani sia per la pace. Terzo: perseguire la giustizia e l’assunzione di responsabilità, la accountability come si dice oggi nel linguaggio diplomatico e umanitario, sono fondamentali per raggiungere la pace. Oggi anche i mediatori delle Nazioni Unite presenti sul terreno riconoscono la complessità del conflitto in Yemen: ammettono che qualsiasi accordo fra le parti in lotta non sarà sostenibile se non c’è il sostegno dei comitati locali di base, se non ci sono iniziative di sviluppo e di costruzione della pace sul campo. Perciò non c’è alternativa a coinvolgere le organizzazioni locali, formate prima di tutto da donne, nel portare avanti e far durare il cessate il fuoco».
«Mai così poche donne tra i partiti politici e nel governo»
Le yemenite affrontano delle sfide enormi per accedere ai gruppi negoziali e ottenere un seggio ai tavoli per la pace: la rappresentanza femminile non è mai stata così bassa, denuncia la giornalista, mentre sono state proprio le donne a patire maggiormente il peso del fallimento della transizione politica dal regime di Saleh tra il 2011 e il 2014 e a subire gli effetti della distruzione del Paese che già nel 2014 figurava fra quelli con i più bassi indici di sviluppo del mondo. «Le priorità delle donne e dei comitati locali di base sono il rilascio dei prigionieri di guerra, la riapertura di strade e aeroporti, il pagamento dei salari. L’inclusione di donne e giovani è indispensabile per creare le condizioni che portino a un minimo di ripristino di sicurezza: come possono le donne – ha chiesto – partecipare ai tavoli dove siedono solo uomini con i fucili in braccio?». La rete Women4Yemen lavora per raggiungere la stabilità in Yemen cercando innanzitutto di colmare il divario tra le associazioni di base delle donne e i gruppi di decisori.
Rapporto Sam: 4.000 abusi su donne nel solo 2020
Anche gli osservatori dell’International Crisis Group hanno evocato più volte (ad esempio qui) la necessità di una maggiore inclusione di donne e comitati locali fra i negoziatori per rendere efficace un eventuale accordo di pace. Un altro centro di ricerca con sede a Ginevra (il Sam) denuncia in rapporto più di 4.000 casi di abusi contro le donne nel solo 2020, fra omicidi, oltraggi fisici, arresti arbitrari, sparizioni forzate, torture e limitazioni alla mobilità.
Ci sarebbero più di 900mila donne sfollate nei campi profughi del governatorato di Marib. Secondo il rapporto i ribelli Huthi sono responsabili degli abusi nel 70 per cento dei casi, seguiti dalle forze governative yemenite nel 18 per cento dei casi e del 5 per cento dal Consiglio di transizione del Sud: i reati vanno dagli omicidi volontari agli assalti contro donne e attiviste, atti che vengono già definiti crimini di guerra e crimini contro l’umanità.