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Verso un Ramadan di fuoco in Terra Santa?

Terrasanta.net
1 aprile 2022
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Verso un <i>Ramadan</i> di fuoco in Terra Santa?
Una sera del Ramadan 2021 alla Porta di Damasco, a Gerusalemme. (foto Olivier Fitoussi/Flash90)

Dopo quattro attacchi terroristici e undici morti nel giro di pochi giorni, Israele è in stato di allerta massima. A pochi giorni da importanti festività ebraiche, cristiane e musulmane si teme una nuova stagione di violenze.


Cinque israeliani sono stati uccisi martedì sera 29 marzo in una sparatoria iniziata da un giovane palestinese a Bnei Brak, un sobborgo di Tel Aviv. Un altro israeliano è stato ferito gravemente la mattina del 31 marzo a bordo in un autobus, a sud di Betlemme, in Cisgiordania per mano di un assalitore che impugnava un cacciavite (e che è stato ucciso da un altro passeggero armato subito intervenuto). Sono gli ultimi due attacchi nell’arco di una settimana o poco più. Due precedenti assalti, un accoltellamento a Be’er Sheva e una sparatoria ad Hadera, hanno provocato la morte di 6 persone (oltre a quella degli assalitori, freddati sul posto). Perpetrati da cittadini arabi israeliani o da palestinesi di Cisgiordania, gli attacchi sono stati rivendicati dallo Stato Islamico. Altri accoltellamenti di ebrei, per fortuna senza esiti mortali, si erano registrati nelle ultime settimane a Gerusalemme.

La minaccia dell’Isis

Da anni Israele non subiva una tale serie di attacchi ravvicinati e letali. I servizi di sicurezza sono in allerta anche per la concomitanza con la Giornata della Terra (intesa come proprietà da difendere – ndr) che i palestinesi hanno celebrato il 30 marzo, e con l’imminente inizio (il 2 aprile) del mese di Ramadan, sacro ai musulmani. Quelle settimane – che vedranno almeno 90mila musulmani affluire ogni venerdì sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme – sono abitualmente fonte di tensione, per via dell’accresciuta presenza della polizia e del rafforzamento dei controlli di sicurezza. L’anno scorso la decisione degli agenti israeliani di transennare la Porta di Damasco, principale accesso al quartiere musulmano in città vecchia, causò manifestazioni di protesta e scontri che si saldarono con il malcontento per la minaccia di espulsione di alcune famiglie dalle loro abitazioni nel quartiere di Sheikh Jarrah e determinarono lo scoppio di una guerra di 11 giorni tra Israele e Hamas (dalla e nella Striscia di Gaza) durante il mese di maggio.

Quest’anno il Ramadan si sovrappone a Pesach, la Pasqua ebraica (15-22 aprile), e alla Pasqua cristiana (17 aprile per cattolici protestanti e 24 aprile per gli ortodossi). Verosimilmente, dopo l’allentamento delle misure sanitarie anti-Covid, la città vecchia sarà inondata di pellegrini delle tre religioni per tutto il mese di aprile. Si temono giornate frenetiche e non prive di tensioni.

In Israele nuova enfasi sulla sicurezza

Alla luce dei recenti attentati, l’esercito israeliano ha affermato che sta rafforzando la presenza delle sue truppe in Cisgiordania e ai check point con quattro battaglioni aggiuntivi. La polizia prevede di mettere in campo le sue compagnie di riservisti e reclutare circa 500 volontari, stando a quanto riferito dai media israeliani. «Tutti i servizi di sicurezza – l’esercito, lo Shin Bet (vale a dire i servizi per la sicurezza interna – ndr) e la polizia – lavoreranno in ogni modo per ripristinare la sicurezza nelle strade di Israele e un senso di sicurezza per i cittadini», ha affermato Benny Gantz, ministro della Difesa israeliano in una conferenza stampa conferenza del 29 marzo. Aggiungere ulteriore pressione alle misure di sicurezza già abitualmente in atto per controllare i palestinesi rischia però di gettare benzina sul fuoco.

Dal punto di vista israeliano, gli attentati rivendicati dal sedicente Stato islamico e perpetrati da cittadini israeliani di origini arabe nel cuore delle città costituiscono una preoccupante novità. La loro preparazione è “sfuggita ai radar” dei servizi di intelligence. Si avvera così una delle «peggiori paure di Israele», scrive il giornalista Amos Harel in un’analisi per il quotidiano Haaretz. L’ultima azione rivendicata dall’Isis, prima di queste ultime, risale al giugno 2017.

Gli attacchi di questo marzo hanno come sfondo il Vertice del Neghev, un incontro organizzato il 27 e 28 marzo tra i ministri degli Esteri di Stati Uniti, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco (gli ultimi tre firmatari degli Accordi di Abramo, del 2020, che mirano a normalizzare i rapporti tra Israele e alcuni Paesi arabi).

In risposta agli attacchi, Itamar Ben Gvir, un politico di estrema destra noto per la sua retorica anti-araba, con il consenso della polizia, si è recato sulla Spianata delle Moschee la mattina del 31 marzo, camminandovi per un quarto d’ora. Il parlamentare ha spiegato ai giornalisti di aver voluto trasmettere un messaggio chiaro ai palestinesi: «Non intendo arrendermi e non mi piego. Lo Stato di Israele non deve cedere a quei terroristi che vorrebbero ucciderci tutti». Il gesto dell’uomo politico è suonato tanto più provocatorio ai palestinesi, all’indomani della Giornata della Terra, che ricorda le sanguinose rivolte che si contrapposero all’espropriazione di terreni di proprietà araba da parte del governo israeliano in Galilea il 30 marzo 1976.

La prospettiva palestinese

Anche sul versante opposto i nervi restano tesi. Sono una dozzina i palestinesi – spesso giovani o giovanissimi – uccisi nelle ultime settimane, in varie circostanze, dai soldati israeliani. Episodi simili non sono, purtroppo, infrequenti e non sempre vengono resi pubblici gli esiti delle indagini sulle responsabilità.

Il presidente Mahmoud Abbas, che il 29 marzo ha espresso condanna per gli attentati contro i civili israeliani, ha anche ammonito, due giorni dopo, che se Israele accresce la pressione, avallando gesti come quelli del deputato Itamar Ben Gvir, non farà che esacerbare le tensioni e destabilizzare ancora di più la situazione.

La rapidità con cui i governi occidentali hanno promosso le sanzioni internazionali contro la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina, sul finire di febbraio, è stata vissuta con amarezza dai palestinesi, che denunciano il “doppio standard” delle risposte occidentali. «Se la Commissione europea può vietare l’importazione di merci dai territori ucraini occupati dalla Russia, perché non fa lo stesso per tutti i territori occupati?», si è domandata, in modo retorico facendo riferimento a Israele, Inès Abdel-Razek, dell’Istituto palestinese di diplomazia pubblica (Pipd).

Altra ragione di frustrazione: i palestinesi, da un mese a questa parte, devono far fronte a un aumento dei prezzi di tutti i prodotti di base, come frutta, verdura, farina, latte, benzina, materiali da costruzione… Una situazione legata «alla speculazione dei grandi squali dell’import in Palestina, che usano la guerra in Ucraina come pretesto per aumentare i prezzi dei prodotti già acquistati», spiega Qassam Muaddi, giornalista palestinese e fine osservatore della società palestinese. A febbraio, centinaia di manifestanti hanno marciato a Hebron, nella Cisgiordania meridionale, per protestare contro l’aumento del costo della vita. Una rabbia latente che l’Autorità Palestinese ha cercato di calmare fissando un tetto ai prezzi di alcuni prodotti, come il pane (3 o 4 shekel al chilo) e il pollo (15 shekel al chilo).

Allentare la tensione!

Consapevoli di quanto sia potenzialmente esplosiva la situazione, Israele, l’Autorità Palestinese e la Giordania stanno cercando di calmare le acque. Isaac Herzog, il presidente israeliano, il 30 marzo si è recato ad Amman per incontrare re Abdallah II di Giordania. I due capi di Stato hanno discusso del mantenimento della stabilità regionale. Solo pochi giorni prima il sovrano hashemita aveva toccato gli stessi temi con il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. A Herzog il re ha ribadito che per la pace occorre lavorare insieme, per evitare che israeliani e palestinesi debbano continuare a pagare il prezzo dell’inimicizia.

Abdallah ha sottolineato che la regione ha tutto da guadagnare dalla cooperazione e dall’integrazione economica tra le varie nazioni, ma questo processo «deve includere i palestinesi». Occorrerà mantenere la calma e, specialmente nel mese di Ramadan, evitare misure a Gerusalemme che limitino l’accesso dei fedeli musulmani alla Spianata delle moschee per la preghiera.

È sembrato d’accordo il presidente Herzog, che ha chiesto di lottare insieme contro il terrorismo e di collaborare al benessere delle proprie nazioni.

Una cosa sembra trovare conferma in questi ultimi giorni: gli Accordi di Abramo hanno messo in ombra la questione palestinese, quasi che fosse ormai risolta o trascurabile. Resta invece intatta e bruciante, ad ammonirci contro illusorie scorciatoie.

(hanno contribuito Cécile Lemoine e Giampiero Sandionigi)

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