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Omicidio Kashoggi, perché la Turchia si piega

Fulvio Scaglione
14 aprile 2022
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I tribunali turchi rinunciano a condurre in porto i processi contro i presunti omicidi del giornalista Jamal Kashoggi, ucciso nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul. C'entra l'emergenza economica nazionale che obbliga ad allargare la cerchia dei Paesi amici.


Distratti dalla tragedia che si dipana in Ucraina, o forse non abbastanza concentrati sulle questioni dei diritti umani e civili quando riguardano Paesi che l’Occidente non ha interesse a mettere all’indice, i nostri media hanno trascurato una vicenda che merita, a dir poco, di non passare sotto silenzio. Ricordate Jamal Kashoggi? Era un giornalista saudita che collaborava con il quotidiano statunitense Washington Post e sosteneva posizioni critiche nei confronti della monarchia saudita, in particolare del giovane principe ereditario Mohammend bin Salman, l’uomo forte del regime.

Il 2 ottobre 2018 Kashoggi, 59 anni, accompagnato in auto dalla sua compagna, entrò nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul e non fu mai più rivisto. Si pensa, in seguito alle indagini giornalistiche e giudiziarie, che Kashoggi sia stato torturato e ucciso da un gruppo di agenti segreti sauditi, che poi smembrarono il cadavere e ne dispersero i pezzi.

La Turchia, all’epoca, fece fuoco e fiamme, anche perché i fatti, al di là della loro crudeltà, costituivano una cruenta e grottesca violazione di ogni regola diplomatica. Molti altri Paesi espressero il loro sdegno. Qualche tempo dopo, sempre a Istanbul, cominciò il processo a carico di 26 cittadini sauditi più o meno coinvolti nell’orrendo omicidio. La pratica giudiziaria si è trascinata stancamente per anni fino all’ultima e definitiva svolta: la Corte turca ha deciso di sospendere il processo a carico degli agenti sauditi e di trasferirlo… all’Arabia Saudita. Da notare: tra i due Paesi non c’è alcun accordo di cooperazione in campo giudiziario e l’Arabia Saudita non ha sottoscritto alcun trattato internazionale che sia stato firmato, in questo campo, anche dalla Turchia. Per finire, in Arabia Saudita il processo per i fatti relativi alla morte di Kashoggi è stato chiuso con un nulla di fatto già molto tempo fa.

Hatice Cengiz, la compagna turca di Kashoggi, e i suoi avvocati hanno subito presentato ricorso, ma con pochissime speranze di ottenere soddisfazione da parte del tribunale di Istanbul. La ragione è chiara. La profonda crisi economica ha spinto il regime del presidente Recep Tayyip Erdogan a rivedere una linea politica che aveva portato la Turchia in un quasi completo isolamento. Un Paese che nel 2022 soffre di un’inflazione superiore al 60 per cento su base annua ha bisogno di alleanze e cooperazione.

Da qui l’esigenza di rilassare i rapporti con Israele e con le monarchie del Golfo Persico, l’uno e le altre da anni protagonisti di un clamoroso processo di riavvicinamento. Insomma, Erdogan ha bisogno dell’aiuto del Paese tecnologicamente più sviluppato (Israele) e di quelli come Arabia Saudita e Qatar che sono le cassaforti del mondo. Di fronte a tutto ciò, la memoria di Jamal Kashoggi e il dovere di fare giustizia pesano assai poco.

Per finire. Qualche settimana fa, il principe saudita Mohammed bin Salman, per convinzione generale mandante dell’omicidio Kashoggi, è stato intervistato da un periodico americano. E ha detto quanto segue: «Se far uccidere la gente fosse il mio stile, Kashoggi non sarebbe stato nemmeno tra i primi mille candidati. Così, per dire».

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